Un calco d’autore per la Medaglia “Salamandra” |
La Barrozza - Natale 2017 - anno XXVI n.3 | |
Scritto da Valentina Marino | |
L’assenza del testimone, colmata dalla Pro Ruscio Tali medaglie, di matrice seriale, ma poco comuni a causa di una produzione ad ogni modo limitata e soprattutto delle frequenti dispersioni (dovute all’interesse del mercato collezionistico e alle appropriazioni susseguenti i casuali o pianificati ritrovamenti del bel cimelio), sono per lo più in possesso di privati cittadini; appena qualche esemplare è entrato, invece, nelle collezioni pubbliche, come quello conservato presso i depositi del Museo Civico di Rieti.
Figura 1
«UNO DEI SEGNI / COLLOCATI PER INDICARE / LA LINEA DI CONFINE TRA / LO STATO PONTIFICIO ED IL / REGNO DELLE DUE SICILIE / STABILITA COL TRATTATO / CONCHIUSO L’ANNO / 1840». Così recita il rovescio della placca, rimandando al trattato stipulato a Roma il 26 settembre 1840 e ratificato il 15 aprile 1852. Si attesta, dunque, con ostentata ufficialità e a imperitura memoria, l’accordo consensuale stipulato per dissipare quell’«incertezza che rimonta in tempi lontani» e che «ha gravemente turbato, al pari che turba tuttavia la pace e la tranquillità delle popolazioni limitrofe, causa sempre rinascente di contese e misfatti; e però di spiacevoli rinascenti reclamazioni tra i due Governi». L’idea iniziale di apporre sul verso le chiavi decussate di San Pietro e il giglio borbonico, incisi già sulle colonnine in pietra, fu soppiantata da una soluzione più articolata (fig. 2, disegno di Stefano Vannozzi). Difatti, vi figurano a rilievo, circondati da due corone formate ciascuna da un ramo di quercia e uno di alloro, gli stemmi dei capi di Stato interessati nella demarcazione territoriale: a sinistra quello di Ferdinando II di Borbone (sovrano del Regno delle Due Sicilie dall’8 novembre 1830 al 22 maggio 1859); a destra gli stemmi affiancati dei papi Gregorio XVI (al soglio pontificio dal 2 febbraio 1831 al 1 giugno 1846), iniziatore del progetto, e Pio IX (pontefice dal 16 giugno 1846 al 7 febbraio 1878), suo prosecutore.
Figura 2
Come gli altri esemplari, la moneta era avvolta in carta bianca e riposta all’interno di una cassetta rettangolare in legno, di rarissima conservazione. È nota quella del cippo n. 3, che fu esposta presso il Parco Naturale Regionale Monti Ausoni e Lago di Fondi (fig. 3) dopo il suo rinvenimento nel 2010, nel riposizionare una delle due colonnine con questo numerale, in territorio comunale di Monte San Biagio (LT). La cassetta, generalmente interrata nel sottosuolo, sotto il manufatto litico o nelle sue immediate vicinanze, in caso di terreno particolarmente roccioso, sembra venisse più semplicemente ricoperta con terra e pietrame.
Figura 3
La medaglia Salamandra, di grosso modulo, ha dimensioni standard: è un disco del diametro di circa cm 11 e spessore non regolarissimo di circa cm 1,4. È in lega metallica ferrosa (ghisa), rivestita da un sottile strato antiossidante appositamente creato. Il peso è di poco meno di un chilogrammo (ovvero g 970). In occasione dell’esecuzione del calco in gesso dall’originale Salamandra, approntato il 20 agosto 2017 nel suo attivissimo laboratorio colonnese (fig. 4), ci ha fornito spiegazione della composizione materica e della realizzazione di questo genere di medaglie dopo la sola osservazione dell’oggetto: «Sembrerebbe trattarsi di una fusione di ghisa bianca a microcristalli, come lasciano intuire anche i corrugamenti in corrispondenza del bordo e altre piccole rugosità dovute alle bolle di gas rilasciate in fase di solidificazione», aggiungendo tuttavia che «tale è la finezza del risultato, da non potersi del tutto escludere l’utilizzo della coniazione con un tondello di ferro a caldo, con una fortissima pressione, come in un procedimento di conio monetale». La conferma che si tratti di una fusione di ghisa l’abbiamo dalle analisi effettuate presso il Museo Nazionale di Capodimonte sulla medaglia della collezione Ricciardi, conservata nel Museo di S. Martino a Napoli.
Figura 4
Aggiunge poi Pulitani, in merito alla colorazione finale, tendente al nero: «Essendo materiale ferroso, per evitare che la ruggine renda illeggibile quello che è rappresentato sull’uno e sull’altro fronte, veniva patinato con uno strato di resina a caldo a 500 °C, formandosi una patina carboniosa resistentissima, che funge da barriera contro la ruggine per millenni». Il cimelio, specifica il maestro, «è certamente di produzione napoletana. Napoli aveva avanzatissime fonderie di ghisa e di bronzo, era una grande eccellenza nella stampa, nella produzione di carta, di mattonelle; insomma, era una potenza industriale in vari settori, avendo sviluppato un’importante tecnologia innovatrice, tanto da produrre il primo treno della penisola: la Napoli-Portici, che per noi può sembrare un percorso brevissimo, quasi un’inezia, ma per i tempi e con i sistemi di allora era una cosa a dir poco eccezionale!». Gli approfonditi studi di Tullio Aebischer sulla documentazione e sui carteggi dell’epoca hanno rintracciato il patto di fondere le medaglie a Napoli e di ripartire il costo fra i due Governi. Sappiamo anche che, a fronte della proposta napoletana di riporre le medaglie solamente sotto le colonne ritenute più significative e alla opposta posizione pontificia di destinare a tutte o a nessuna il particolare “testimone”, non potendosi individuare criteri oggettivi di discriminazione, prevalse infine la soluzione di una placca per ogni colonna, ad eccezione di sei casi in cui non fu possibile: le colonne 26 e 78 furono letteralmente scolpite nella roccia; per i termini 91 e 563 furono scolpiti i soli stemmi, il millesimo e il progressivo sulla roccia; la colonnetta 144 fu posta sul parapetto di un ponte; la 250 reimpiegava un preesistente manufatto piramidale. Inoltre, quattro verbali di demarcazione non menzionano esplicitamente la deposizione della medaglia (66, 591A, 593 e 594), anche se si presume vi sia stata ugualmente interrata. In tal caso si raggiungerebbe un totale di 680 medaglie realizzate. Negli Stati preunitari sono conosciuti e studiati anche altri cippi di segnalazione del confine amministrativo con insegne di governo. Ad esempio, dalla seconda metà del Settecento il Granducato di Toscana impiantò termini sia con lo Stato Pontificio sia con il Ducato di Parma.
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