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I Testimoni
SCN - La miniera
Scritto da Alessandro Angelini, Domenico Angelini, Manuela Di Martino   


Le miniere di lignite di Ruscio hanno rappresentato un elemento importante ed una grande fonte di guadagno e non solo per la popolazione della zona.
Sono moltissime le persone che hanno contribuito, con il loro lavoro, al sostegno ed allo sviluppo di questi centri, ma è stato difficilissimo trovare delle testimonianze dirette.
Troppi anni sono passati da quando quelle miniere sono state chiuse e purtroppo gran parte della gente che vi ha lavorato non c’è più.

foto_SCN_miniera_interv_1.JPG

Non sono molte, infatti, le persone che siamo riusciti a contattare per avere maggiori informazioni e alcune delle nostre notizie provengono da fonti secondarie, da persone che non hanno lavorato attivamente in quei luoghi, ma che sono state a contatto con i diretti interessati e che ci hanno tramandato quello che gli era stato a loro volta raccontato.
Uno di questi casi è quello della signora Vannozzi Zita che, nonostante abbia avuto delle difficoltà nel ricordare quei momenti, ha contribuito a incrementare le notizie che avevamo, raccontandoci dell’esperienza vissuta nelle miniere dal marito, Carmignani Paolo (foto sotto)

foto_SCN_miniera_interv_2.JPG

Il signor Carmignani Paolo con la moglie Vannozzi Zita,
nostra intervistata

D: Salve signora Zita, sappiamo che suo marito ha lavorato nelle miniere di lignite di Ruscio. Ha dei ricordi di quel periodo?

R: Purtroppo non ho ricordi molto nitidi…sono passati molti anni.

D: Cosa le viene in mente quando pensa a quei momenti?

R: Erano anni molto difficili e si era disposti a fare lavori anche pesantissimi, pur di avere poche lire.

D: Perché, quanto guadagnava suo marito?

R: Non guadagnava molto, ma riuscivamo ugualmente a mandare avanti la famiglia. Ne abbiamo fatti di sacrifici, soprattutto il mio “povero” Paolo…si alzava prestissimo tutte le mattine e a piedi si recava a lavoro. Io gli preparavo qualcosa da mangiare e glielo davo prima che se ne andasse.

D: Perché, quanto tempo stava lontano da casa?

R: Tornava soltanto la sera a cena.

D: Quindi lavorava all’incirca otto o dieci ore al giorno?!

R: Già, otto ore o forse anche di più, ma non ricordo precisamente. La sua unica fortuna era quella di non essere “rinchiuso” in quelle miniere, come tanti altri…

D: In che senso?

R: Paolo non faceva il minatore e per questo aveva la fortuna di stare alla luce del sole.

D: Perché, dove lavorava?

R: Lui lavora in falegnameria, dove venivano tagliati i tronchi e le travi che servivano per puntellare le gallerie.

D: E il suo lavoro consisteva solo in questo?

R: No, se non ricordo male, dovrebbe aver lavorato anche nelle miniere a cielo aperto.

D: A cielo aperto?

R: Si, non esisteva un solo punto di lavoro…accanto alle miniere sotterranee esistevano anche quelle a cielo aperto…credo che, in tutto, le miniere siano state circa quattro o cinque, ma purtroppo non le ho mai viste.

D: E quali erano le sue mansioni principali?

R: Oltre a lavorare nella segheria, quando c’era bisogno caricava i camion che trasportavano la lignite a Terni per essere poi lavorata.

D: Per quanti anni vi ha lavorato?

R: Di preciso non ricordo…quello che so, di sicuro, è che ha iniziato a lavorare solo dopo la guerra.

D: Era a conoscenza dell’esistenza di campi di prigionia nelle miniere?

R: Si, ne ero a conoscenza; so che le miniere erano diventate campi di prigionia durante la guerra, soprattutto per soldati slavi, ma non so precisamente cosa essi facessero o come vivessero…non so se venivano impiegati come lavoratori…ricordo solo che ce ne sono passati tanti…

D: È stato suo marito a riportarle queste informazioni?

R: Se ben ricordo, no …dovrei averle avute da altre fonti. Paolo in quel periodo era un “combattente” e non credo sia mai entrato in contatto con quei prigionieri.

D: È cambiata la vita della vostra famiglia quando le miniere sono state chiuse?

R: Bhè, si…certamente da quel momento Paolo è stato più presente, ma, per quanto la sua paga non fosse altissima, era sempre una buona “entrata” per la famiglia!

D: Cos’altro ricorda?

R: Purtroppo sono passati molti anni ed anche il fatto che io non abbia mai “visitato” le miniere, non è d’aiuto. Quel poco che ricordo è solo frutto di quei brevi racconti che mi faceva mio marito quando, stanco, tornava a casa…

D: Ha qualche tipo di materiale cartaceo risalente a quel periodo?

R: No, non mi è rimasto nulla; l’unica cosa che avevo, fino a qualche tempo fa, era una vecchia foto, ma purtroppo ora non l’ho più. Mi dispiace per la scarsità di informazioni che vi ho riportato, ma spero che vi siano ugualmente d’aiuto per la vostra ricerca.

D: Certamente. La ringraziamo per la sua disponibilità.

( Monteleone di Spoleto, 6 maggio 2007 )

Un altro caso di testimonianza indiretta è quella del signor Giovannetti Raffaele (foto a), che ci ha raccontato dell’esperienza vissuta in miniera dal padre, Alfredo Giovannetti (foto b).

foto_SCN_miniera_interv_3.JPG

Foto a_Il signor Giovannetti Raffaele,
nostro intervistato

foto_SCN_miniera_interv_4.JPG

Foto b_Il signor Giovannetti Alfredo,
padre del signor Giovannetti Raffaele

D: Salve signor Raffaele, ricorda quando suo padre iniziò a lavorare in miniera ? E per quanti anni?

R: Di preciso non ricordo. Quello che so è che sicuramente nel 1942-’43 vi lavorava. Poi nel 1944 venne portato a Roma dai tedeschi.

D: Perché venne trasferito a Roma?

R: Venne portato lì come prigioniero. Nonostante durante la guerra fosse scampato “alle armi”, come tanti altri, grazie al lavoro in miniera, che era considerato un lavoro civile per le forze armate, nel ’44 i tedeschi lo presero, insieme ad altre 40-50 persone, e lo portarono a Cinecittà.

D: Ma perché a Cinecittà? A cosa servivano tutte quelle persone?

R: I prigionieri vennero utilizzati per scavare delle buche nel terreno, creando una specie di trincee, che i tedeschi utilizzavano per ripararsi dal fuoco nemico. Era il periodo dello sbarco di Anzio.

D: E per quanto tempo suo padre e gli altri vennero “trattenuti” a Roma?

R: Per circa 50 giorni. Successivamente vennero rilasciati e mio padre riprese il lavoro in miniera.

D: Che lavoro svolgeva?

R: Lui era minatore.

D: Sa se le sue mansioni furono sempre le stesse o se, nel tempo, svolse diversi lavori?

R: Per quel che so, ha sempre fatto il minatore. Aveva una specie di “assistente”, che era incaricato di riempire i carrelli e di spingerli in superficie.

D: All’interno delle gallerie lavoravano soltanto queste due figure?

R: No, c’era anche un addetto ai binari ed un “puntellatore”, se così si può chiamare. Il primo, man mano che si andava avanti con gli “scavi”, doveva allungare la “linea” dei binari, mentre il secondo, che io ricordo era un certo Stella di Rescia, era una specie di carpentiere che aveva il compito di puntellare le gallerie, per evitare che franassero.

D: Sa quante erano le miniere e come venivano chiamate?

R: So che esistevano le “Talpe” e le “Discenderie”, ma non so di preciso quante gallerie vi fossero. Ricordo che una volta, da bambino, ho potuto visitare le miniere, entrando per qualche metro all’interno di una discenderia.

D: E si ricorda come erano?

R: Erano costituite da una galleria principale e da gallerie laterali, chiamate anche “galleriozzi”. La galleria principale era completamente puntellata ed era costituita da una prima parte in discesa ( da cui il nome “discenderia” ) e da una seconda parte in piano. E proprio perché le gallerie erano costituite da questa parte in pendenza, era impossibile spingere i carrelli carichi, completamente a mano, quindi venivano utilizzati argani elettrici, che, se non ricordo male, erano azionati da Perelli Amedeo e Rocchi Domenico. La profondità delle discenderie era di circa 100 metri e di fronte all’imbocco delle gallerie c’era un piazzale, dove veniva scaricata la lignite, che veniva poi caricata sui camion a mano o mediante la tramoggia.

D: E la miniera, nel suo insieme, com’era organizzata?

R: Oltre alle varie gallerie, dove lavoravano i minatori ed i loro “assistenti”, c’era anche un grande capannone, vicino alla cabina elettrica, dove c’erano un’officina, una falegnameria ed un fabbro. C’era anche un gruppo di muratori…ricordo che, in quegl’anni, edificarono casa di Romano Giovanetti.

D: Sa quante persone vi lavoravano, quando c’era suo padre?

R: Bhè, erano molti…credo che all’incirca fossero trecento persone.

D: E sa come si svolgeva il lavoro?

R: So che si lavorava su tre turni da 8 ore al giorno: dalle 6.00 del mattino alle 14.00, dalle 14.00 alle 22.00 e dalle 22.00 fino alle 6.00 del mattino seguente. So anche che i turni non erano sempre gli stessi…ricordo che i minatori, come mio padre, li alternavano all’incirca ogni 15-20 giorni.

D: Ricorda quanto prendeva suo padre, come stipendio?

R: No, di preciso non ricordo. So solo che non prendeva molto, anche se i minatori erano quelli che avevano la paga più alta…in fondo svolgevano il lavoro più rischioso!

D: Sa da cosa era composto l’equipaggiamento dei minatori?

R: Avevano soltanto l’acetilene ed il “male e peggio”, un particolare strumento costituito da una zappa ed una accetta, che serviva loro per scavare e per spezzare i grandi “massi” di lignite che venivano estratti.

D: So che spesso si sono verificati degli incidenti, all’interno delle gallerie. Lei ne sa qualcosa?

R: Si, ricordo, in particolare, di due persone che rimasero ferite: Domenico Risoldi ed un certo Armando del Trivio. Il primo, ricordo si fratturò una gamba, mentre il secondo, purtroppo, riportò ferite più gravi e rimase sulla sedia a rotelle. Ma fortunatamente non ci furono mai morti.

D: Eh già, era davvero un lavoro rischioso, quello del minatore…ma a cosa serviva la lignite che veniva estratta?

R: So che principalmente serviva ad alimentare le acciaierie ternane, ma veniva trasportata anche a Treviso, dove era utilizzata in varie industrie. Ricordo anche che la lignite, da Ruscio veniva portata alle suore di Monteleone, che la utilizzavano per il riscaldamento.

D: Per tutti questi usi, doveva servirne molta?! Sa quanta ne veniva estratta, ogni giorno?

R: Durante la Seconda Guerra Mondiale so che dovevano esser fatti all’incirca diciotto carrelli al giorno, poi, negli anni ’50, con l’avvento dei sindacati, la quantità di lignite richiesta scese a circa dodici carrelli giornalieri.

D: Fino a quando furono aperte le miniere?

R: Le miniere rimasero aperte fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando vennero chiuse; poi vennero riaperte negli anni ’50, ma non so per quanti anni rimasero attive. Quello che so, di sicuro, è che nel 1952-’53, erano ancora funzionanti.

D: Durante la guerra le miniere divennero campi di prigionia; sa qualcosa di quel periodo?

R: Ricordo solo che la maggior parte dei prigionieri era costituita da soldati slavi, che venivano utilizzati, all’interno delle miniere, come lavoratori, soprattutto come “assistenti” dei minatori.

D: E quando i prigionieri furono rilasciati, cosa accadde?

R: Dopo il campo di lavoro e prigionia, con l’arrivo degli inglesi le miniere furono trasformate in un campo di esercitazioni. Ricordo che avevano “creato”, all’interno dell’area ( precisamente nell’attuale azienda agricola di Giovanetti Romano ), anche una specie di cinema, dove proiettavano film di guerra in lingua inglese. Molto spesso venivano a prenderci, con i loro camion, fino a Monteleone e ci portavano alle miniere per vedere i film che venivano proiettati. Noi ragazzi ci andavamo volentieri, anche perché era gratuito…peccato che di quei film, che non erano in italiano, capivamo poco o nulla!

D: Quindi gli inglesi erano persone molto disponibili, nei vostri confronti?!

R: Si, abbastanza…ricordo che una domenica venne organizzata, alle miniere, anche una partita di calcio tra inglesi e monteleonesi, ma non so chi abbia vinto.  Tuttavia, nonostante ciò, erano anche persone abbastanza “rissose”…ricordo che quando, dalle miniere, venivano al bar in paese, scoppiava sempre qualche rissa…e non dipendeva quasi mai da noi monteleonesi!

D: Cos’altro ricorda del periodo in cui suo padre lavorava in miniera?

R: Ricordo che il 4 dicembre ricorreva la festa di S. Barbara, la protettrice dei minatori e per l’occasione veniva organizzato un pranzo, presso le miniere, per tutti i familiari dei minatori. Ricordo che a Monteleone veniva a prenderci Antonio Ciampini, con il camion “a carbonella” della miniera…era proprio una bella ricorrenza!! Anche perché era una delle rare occasioni di svago in cui potevamo stare tutti insieme!

( Monteleone di Spoleto, 27 giugno 2007 )

Iniziamo ora con una serie di testimonianze dirette, di racconti di persone che hanno attivamente prestato servizio alle miniere. Il primo caso è quello del signor Agabiti Domenico Antonio (foto sotto).

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Il signor Agabiti Domenico Antonio

D: Quando ha iniziato a lavorare nelle miniere di Ruscio?

R: La mia esperienza nella miniera di lignite è cominciata nel 1936, quando ero ancora minorenne. È doveroso precisare che i minorenni potevano entrare a far parte delle squadre di lavoro solo come volontari. Infatti non vigeva alcuna costrizione, né verso quest’ultimi, né tanto meno verso i maggiorenni; anzi la miniera rappresentava un’opportunità per tutti, anche per i prigionieri detenuti nel campo di prigionia adiacente le miniere. Se essi sceglievano di lavorare, potevano beneficiare di concessioni particolari, come la doppia razione di cibo e/o buoni da 1 lira e da ½ lira.
Generalmente, fra i deportati, gli Slavi ed i Montenegrini erano i più attivi nelle miniere, a differenza dei deportati di origine Africana, che difficilmente sceglievano di lavorare in miniera, preferendo spendere parte del loro tempo cantando.

D: Qual’era l’età media dei lavoratori?

R: La fascia di età dei lavoratori partiva dai 16 anni  fino ai 50 anni  circa.

D: E lei quanti anni aveva?

R: Avevo 17 anni.

D: Si ricorda quante erano le miniere e dove si trovavano?

R: Le miniere erano cinque ( Scoppacamere, loc. Camponero, le Talpe, Babillone e la Nona ), anche se il banco lignifero era il medesimo, e si trovavano lungo l’altopiano che si distende da Ruscio a Leonessa, attraversando il fiume volga.

D: Lavorava in una miniera in particolare o veniva trasferito da un posto all’altro secondo l’esigenza del lavoro?

R: Lavoravo in una miniera denominata “Le Talpe”, svolgendo una mansione specifica.
 
D: E qual’era questa mansione?

R: La mia mansione era quella di manovratore: gestivo il traffico dei carrelli in entrata ed in uscita. A volte preferivo estrarre 10 carrelli di lignite, alternativa spesso scelta dai minatori per ovviare alle effettive 8 ore di lavoro.

D: Come e dove veniva trasportato il minerale? E chi se ne occupava?

R: Il materiale estratto veniva trasferito all’esterno della miniera per mezzo di carrelli opportunamente collegati, con una catena metallica, ad un argano a motore elettrico. Dopodichè il carrello veniva spinto sino una base sopraelevata rispetto al piano in cui transitavano i vagoni del vaporetto. Da qui il carrello veniva ribaltato scaricando il proprio contenuto di lignite nel vagone o in un camion. La lignite arrivava poi a Ferentillo (TR), dove infine partiva per Terni.

D: A Quanto ammontava la vostra paga?

R: La paga era di 600 lire l’ora , quindi pari ad 4800 lire al giorno. Tale retribuzione veniva presa anche da chi preferiva lavorare a “cottimo” (estraendo un minimo di dieci carrelli di lignite), svincolandosi dalle otto ore previste.

D: In caso di malattia o di altri gravi problemi, quali trattamenti vi erano riservati?

R: La miniera era dotata di un Dottore, che prontamente interveniva sugli infortunati. Per gli infortuni più gravi l’interessato aveva diritto ad una pensione d’invalidità. Diversi minatori s’infortunarono nella miniera, tra cui ricordo Salvatori Armando (incidente avvenuto nel 1946 come si evince dal necrologio piu' sotto pubblicato (*)) e Cervosi Primo. Tuttavia gli infortuni, rapportati al cospicuo numero di operai, inducono a pensare ad una sostanziale sicurezza dei luoghi di lavoro.

D: E come erano i rapporti tra voi operai?

R: Per rispondere a questa domanda è bene ricordare che in quegli anni vigeva il regime Fascista; chi lavorava in miniera poteva considerarsi molto fortunato, perché era esonerato dal servizio militare; per questo, provocare una lite poteva anche significare “andare al fronte”. Quindi ogni piccolo attrito che poteva generarsi tra gli operai, veniva da loro stessi smorzato. Ma sostanzialmente i rapporti fra gli operai erano buoni.

D: Quando venne creato, presso la miniera di Ruscio, il campo di lavoro e di prigionia, ebbe la possibilità di intrattenere rapporti con gli internati?

R: Si, ho avuto la possibilità di conoscere alcuni deportati che lavoravano in miniera e con i quali ho stretto buoni rapporti. Ricordo che molto spesso ho dato loro del cibo in cambio di piccoli utensili che essi stessi realizzavano nei momenti di riposo. Inoltre dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il campo di prigionia venne smantellato, molti di essi vennero ospitati dalla mia famiglia e da altre in cui offrivano la propria forza lavoro in cambio del vitto e dell’alloggio. 

D: Ha ulteriori ricordi di quel periodo?

R: Ricordo che in quel periodo non lavoravo solo in miniera, ma intrapresi un piccolo lavoro, quello della riparazione di biciclette (mezzo con il quale molti operai e persone del posto si spostavano). Inoltre capitava che con gli altri operai si organizzavano delle piccole manifestazioni davanti alle miniere.

D: Cosa le ha lasciato questa esperienza?

R: È stata un’esperienza lavorativa a tutti gli effetti, in cui ho avuto la possibilità e l’opportunità di confrontarmi con persone qualificate, con operai e prigionieri che hanno contribuito ad arricchire la mia cultura. Ho un ricordo piacevole di quel periodo, anche se poi si sono verificati tristi e gravi episodi, come il serio infortunio a Salvatori Armando.

D: È possibile visionare materiale, in suo possesso, risalente a quel periodo?

R: Si ho una pala ed una “forcina” (vedere foto 1), che venivano utilizzate in miniera, e alcuni metri di “ferro spinato” (vedere foto 2) del campo di prigionia.

(*) tratto da "Leonessa e il suo Santo" - anno XI, n. 60, 1974

DA TRIVIO
Alla fine del mese di aprile, tutta Trivio si e' unita alla famiglia Salvatori nel lutto per la perdita di Armando. Gravemente infortunato sul lavoro a soli trent'anni appena finita la guerra, e' vissuto sempre su una carrozzella, accusando indicibili dolori alle parti lese.

La disgrazia avvenne nella miniera di Ruscio per l'improvviso cedimento di una impalcatura che gli rovino' addosso. La sua vita fu un continuo calvario e, per i dolori a volta atroci, e per il dispiacere di non poter essere piu' utile alla famiglia.

Ora non c'e' piu': e' morto serenamente all'inizio di questa primavera, ma per lui l'ultima promavera fu quella del 1946 

(Ruscio, 10 maggio 2007)

Continuiamo le nostre interviste con il signor Bartolomei Pietro (foto sotto), che abbiamo raggiunto a Roma e che ci ha raccontato della sua dura esperienza da minatore alle miniere di Ruscio.

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Il signor Bartolomei Pietro

D: Quando iniziò a lavorare nelle miniere di Ruscio?

R: Iniziai nel ’37, all’età di 16 anni.

D: E per quanti anni vi lavorò?

R: Complessivamente vi lavorai per circa 10 anni. Intorno al 1939 le miniere vennero chiuse, ma io continuai a lavorarvi da solo con un assistente; fummo incaricati non solo di estrarre la lignite, ma anche di mantenere pulite le miniere. Ricordo che ogni tanto i carabinieri venivano a controllarci.

D: Si ricorda quali erano le varie miniere esistenti a quel tempo?

R: La prima miniera fu quella a cielo aperto, che si trovava vicino ai Collacci; poi vi furono le “Talpe”, che andavano dai capannoni di Romano Giovannetti, fino alla strada per Leonessa e le “Discenderie”. Altre gallerie erano a Camponero ed a Scoppacamere, mentre un’altra cava si trovava nei pressi della cabina elettrica.

D: Che differenze c’erano tra le Talpe e le Discenderie?

R: Le Talpe erano tutte in piano, mentre le Discenderie, come dice il nome stesso, oltre ad avere una parte in piano, “discendevano” per circa 100 metri. Mentre nelle Talpe i carrelli venivano spinti a mano, nelle Discenderie essi venivano tirati da un argano elettrico e portati in superficie. Inoltre, a differenza delle Talpe, dove si trovava subito la lignite, nelle Discenderie bisognava scavare molto prima di trovarla.

D: Lei che mansioni svolgeva all’interno della miniera?

R: Io ero un minatore, quindi ero il primo ad entrare in galleria; cercavo e scavavo la lignite, seguito da un manovale, incaricato di riempire i carrelli. Era un lavoro difficile e pericoloso. Avevo un particolare attrezzo, il “male e peggio”, che usavo, oltre che per scavare, anche per sentire, battendolo alle pareti, dove la galleria potesse franare.

D: Il suo ruolo consisteva solo in questo oppure svolse, nel tempo, compiti diversi?

R: Fino alla chiusura delle miniere, appena dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il mio ruolo fu soltanto quello di minatore, ma quando le miniere vennero riaperte, intorno al 1950, ricoprii il ruolo di manovale, incaricato di andare nelle gallerie con i carrelli. Comunque il lavoro più pericoloso e faticoso era senza dubbio quello del minatore. Ricordo che durante la guerra, quando esisteva il sistema delle tessere per gli alimenti, come pane e pasta, noi minatori eravamo, in un certo senso, “avvantaggiati”, perché ricevevamo più degli altri.

D: Come era articolato il lavoro all’interno delle miniere?

R: Innanzitutto la miniera era aperta 24 ore su 24 ed il lavoro si articolava su turni di otto ore: dalle 6.00 alle 14.00, dalle 14.00 alle 22.00 e dalle 22.00 alle 6.00 del giorno successivo.

D: Ed il lavoro all’interno delle gallerie, come si svolgeva?

R: Nelle gallerie principali, man mano che si scavava e si andava avanti, venivano fatti dei puntelli con travi incassate, mentre le gallerie secondarie venivano puntellate solo in caso di bisogno. Esistevano, inoltre, dei piccoli spazi che venivano chiamati “Camere” e che venivano puntellati e ripuliti interamente. Una volta estratta la lignite, i puntelli venivano tolti e venivano lasciate franare le pareti.

D: Da che cosa era composto il vostro equipaggiamento?

R: Non avevamo cose particolari…eravamo “armati” solo di “male e peggio”, che faceva da zappa e da accetta, di forcone e di acetilene. Ricordo che mentre si scendeva, la fiamma della lampada diventava man mano più fioca…Eh già, c’era veramente poco ossigeno là sotto! Poi, fortunatamente, venne posizionato, all’interno della galleria, una specie di ventilatore, un sistema di due tubi per portar fuori aria viziata e far entrare aria pulita. In quel periodo inventarono anche un sistema per il trasporto dell’acqua.

D: A quanto ammontava la sua paga?

R: Inizialmente prendevo circa 60 centesimi l’ora, poi, con il tempo il mio salario venne aumentato…noi minatori eravamo i più pagati.

D: Ha sempre svolto turni di otto ore?

R: No, a volte ho lavorato anche a cottimo, ma i “caporali”, quelli che comandavano, ben presto decisero di toglierlo, perché i lavoratori, nella fretta di finire il lavoro, danneggiavano le gallerie, caricando i pezzi di lignite che si staccavano da soli.

D: Come e dove veniva trasportata la lignite?

R: La lignite serviva ad alimentare le acciaierie di Terni, dove veniva trasportata mediante dei camion appartenenti ad una società di Civita Castellana.

D: Ma la miniera non possedeva nessun mezzo di trasporto?

R: Certamente. La miniera aveva un camion che andava “a carbonella”, ma che veniva utilizzato per il trasporto della lignite solo fino alla strada carrabile per Leonessa, appena sopra le miniere, dove poi veniva caricata sui camion della ditta Brunelli.

D: E come veniva caricata?

R: Veniva caricata a mano oppure mediante le tramogge, dei particolari “contenitori” della capacità di un camion.

D: Quanto poteva trasportare un camion?

R: Un camion aveva la capacità di circa 8 quintali, mentre un carrello conteneva circa 5-7 quintali di lignite.

D: E quanta lignite potevate estrarre, ogni giorno?

R: La lignite non tutti i giorni era uguale e non solo per la quantità, ma anche per la “durezza”. Ricordo che nelle Camere essa veniva estratta in blocchi molto grandi e quindi, prima di essere caricata, veniva spezzata con il “male e peggio” in base all’utilizzo che poi ne doveva esser fatto.

D: Come era composto il “campo”?

R: Oltre alle varie cave e miniere c’erano anche un’officina meccanica, un fabbro ed una segheria, dove venivano tagliati i tronchi e le tavole che servivano per puntellare le gallerie.

D: Durante la seconda guerra mondiale continuò a lavorare nelle miniere?

R: Nel ’41 andai sotto le armi, ma presto ricevetti un esonero e dalla Sardegna fui rimandato a lavorare alle miniere.

D: Quando venne creato, presso le miniere, il campo di lavoro e di prigionia, ebbe la possibilità di intrattenere rapporti con gli internati?

R: Si, in quel periodo lavoravo nelle Discenderie. Ricordo che c’erano sia prigionieri slavi, che indiani, ma solo i primi lavoravano con noi minatori.

D: E come si trovò con loro?

R: Non ebbi una bella esperienza. Ricordo che un giorno mi affiancarono un assistente slavo, ma proprio quello stesso giorno fui coinvolto in un incidente. Fui travolto da una frana ed il mio “compagno”, invece di aiutarmi ad uscire, scappò. Fortunatamente, nonostante anche la mia lampada si fosse spenta, riuscii a mettermi al riparo prima che la parete franasse del tutto. E da quel giorno non ho più voluto lavorare con quei prigionieri...volevo accanto solo persone che conoscevo bene!

( Roma, 5 giugno 2007 )

Un forte contributo alla nostra ricerca ci è stato dato anche dal signor Calisti Arnaldo (foto sotto) che, con entusiasmo, ci ha raccontato della sua dura esperienza alle miniere di lignite di Ruscio, durata ben nove anni.

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Il signor Calisti Arnaldo

D: Quando ha iniziato a lavorare alle miniere di lignite di Ruscio?

R: Ho iniziato nel 1941.

D: E per quanto tempo vi ha lavorato?

R: Ho lavorato alle miniere per circa nove anni, fino al 1950; ma non è stato sempre un lavoro continuo, sia perché nel 1945, con la fine della Seconda Guerra Mondiale, le miniere vennero chiuse, per poi essere riaperte intorno al 1948, sia perché la società spesso ci licenziava, per poi riassumerci dopo qualche mese o addirittura qualche giorno.

D: Lei che lavoro svolgeva all’interno delle miniere?

R: All’inizio fui manovale; lavoravo alla costruzione di palazzine e capannoni, poi, dopo circa due anni, entrai in galleria come “carrellista”. Ricordo che lavoravo insieme ad Emilio Giovanetti, detto “terremoto”; lui era minatore, mentre io ero addetto al carico dei carrelli ed al loro trasporto in superficie.

D: E svolse sempre lo stesso compito?

R: No, ricoprii ruoli differenti, anche a seconda del “periodo” che le miniere stavano vivendo. Per qualche tempo fui “binarista”, addetto cioè alla riparazione dei binari nelle gallerie; poi, dopo la guerra, poiché c’era poca richiesta di lignite, ma bisognava comunque tenere pulite le gallerie, fui addetto alle pompe che trasportavano l’acqua in superficie. Ricordo che le pompe erano quattro o cinque ed erano azionate da un coltello generale che si trovava all’inizio della galleria; ogni notte, dalle 22.00 alle 6.00, da solo dovevo controllare che tutto funzionasse nel modo migliore. Poi fui addetto anche all’argano elettrico, attrezzo che, mediante funi di ferro, “tirava” in superficie i carrelli carichi di lignite, che altrimenti non potevano essere spinti a mano. Una volta fui anche coinvolto in un incidente causato da un corto circuito all’argano…fortunatamente non riportai conseguenze gravi!

D: Si ricorda di altri incidenti?

R: Bhè, spesso capitava che le gallerie venissero “coinvolte” da frane, anche di media entità, ma fortunatamente non ci furono mai morti. Ricordo però che Risoldi Domenico ed Armando Salvatori del Trivio rimasero invalidi.

D: Ricorda a quanto ammontava la sua paga?

R: Lo stipendio era misero…bastava appena per sopravvivere! Se non ricordo male la mia prima paga ammontò a circa 40 centesimi l’ora, poi, con il tempo, aumentò, fino ad arrivare a 2,48 lire l’ora.

D: Quante erano le miniere? E come venivano chiamate?

R: Ricordo che c’erano due Discenderie, un sito a Camponero ed uno a Scoppacamere, a metà strada tra Ruscio e la miniera, sotto Policiano. Dopo il ’50 venne aperto un ulteriore sito dietro l’edificio di Giovanetti Romano, di cui però non so quasi nulla, visto che non vi lavorai mai.

D: Come si presentavano internamente le gallerie?

R: Erano costituite da una galleria principale e da gallerie laterali, o traverse, che erano numerate da 1 a 9. La parte anteriore della galleria principale veniva chiamata “avanzamento”, mentre le gallerie secondarie prendevano il nome dalla loro “posizione” e quindi dal loro numero ( c’era infatti la “prima”, la “seconda”, la “terza” e così via ). Le gallerie venivano interamente puntellate, per evitare che franassero, ed una volta finito di estrarre la lignite, le travi venivano tolte, lasciando crollare le pareti.

D: Quanta lignite veniva estratta ogni giorno?

R: Variava a seconda dei giorni, dato che non sempre si trovava la stessa quantità di lignite. Ricordo che in un primo tempo bisognava fare dieci carrelli, che poi vennero portati a dodici; ogni “vagone” carico, pesava circa cinque quintali…era un lavoro davvero faticoso, soprattutto per i giovani di 16-17 anni come me!

D: E come portavate i carrelli in superficie?

R: Dove era possibile, li spingevamo a mano, ma nelle discenderie, poiché c’erano dei tratti in salita di circa 30-40 metri, venivano portati in superficie mediante argani elettrici. Dalle gallerie laterali, i carrelli venivano portati in galleria principale, dove venivano poi agganciati, uno dietro l’altro, all’argano. In tutto i carrelli erano circa dieci o dodici. Alcune volte succedeva che, durante il trasporto, i vagoni “deragliassero” e che, molto spesso, andando fuori dalla linea, urtassero contro i puntelli, causando cedimenti nella galleria. A quel punto, insieme ai minatori, dovevamo rimettere tutto a posto.

D: Come e dove veniva portata la lignite?

R: Veniva portata in varie fabbriche del territorio nazionale, perché serviva ad alimentare soprattutto le fonderie e le acciaierie. Per questo veniva trasportata, mediante degli autotreni, verso Terni e Piediluco, dove peraltro c’era un’altra miniera, e dove veniva caricata su treni che la trasportavano nei luoghi in cui ne era stata fatta richiesta.

D: Veniva trasportata con i mezzi appartenenti alla miniera di Ruscio?

R: No, nonostante la miniera disponesse di alcuni mezzi, come il “famoso” camion “ a carbonella”, la lignite veniva trasportata soprattutto dalla ditta Brunelli di Civita Castellana.

D: Gli autotreni viaggiavano ogni giorno? E all’incirca quanta lignite veniva trasportata?

R: Si, i camion viaggiavano ogni giorno e credo che, in una sola giornata lavorativa, ne potessero partire anche tre o quattro.

D: Come eravate equipaggiati per il lavoro?

R: L’equipaggiamento era scarso…eravamo “armati” solo di “male e peggio” , pala e acetilene.

D: Ma erano tutti strumenti che vi passava la società?

R: No, perfino l’acetilene era di nostra proprietà; loro ci passavano soltanto il carburo per alimentarla. Inoltre ci mettevano a disposizione un paio di stivali, che però ci ”alternavamo” fra i lavoratori dei vari turni e per questo erano malconci e spesso bucati o “rattoppati”.

D: Quante ore lavoravate in un giorno?

R: Lavoravamo otto ore al giorno. La giornata era articolata su tre turni, ma molto spesso capitava che l’assistente ci desse il “cottimo” e così noi potevamo, una volta “finiti” i nostri carrelli, tornare a casa, ovviando alle intere ore di lavoro del turno.

D: Lei come si recava a lavoro?

R: Io andavo a Ruscio a piedi; nei primi tempi andavo a piedi anche fino alle miniere, poi, dopo la fine della guerra, con l’ultimo “passaggio” dei tedeschi a Monteleone, ho trovato una bicicletta un po’ malconcia e mi sono arrangiato con quella per un po’ di tempo. Fino a quando non sono riuscito a comprarmene una, a ruota fissa, che lasciavo a Ruscio, come tanti altri.

D: C’era qualcuno che vi controllava nello svolgimento del vostro lavoro?

R: Si, c’erano sia assistenti addetti all’esterno, che assistenti addetti all’interno; controllavano il lavoro in generale, facevano l’appello e, durante gli “abbattimenti” delle camere, facevano attenzione a che nessuno rimanesse coinvolto nelle “frane”. Ricordo che, di questi assistenti, la maggior parte erano romagnoli ( Baldini, i fratelli Rogo (*), Bocci e Galli ), poi c’era Stella di Rescia, addetto soprattutto a puntellare le gallerie, Pitti di Leonessa ed un certo Vittorio di Assisi. Uno dei due fratelli Rogo (*) era Assistente Generale, responsabile di tutto il personale ed era addetto, quindi, alle assunzioni ed ai licenziamenti. Poi, “a capo” di tutta la miniera c’era l’Ingegner Minciotti, mentre Salamandra Nicola ne era il Ragioniere.

(*) In data 29/11/2010 abbiamo ricevuto la seguente precisazione da parte del Sig. Franco Rogo:

"in realtà si trattava dei fratelli RINALDO ROGO e QUINTO ROGO di cui RINALDO ROGO ha svolto le mansioni di assistente generale , addetto alle assunzioni, licenziamenti e paghe ; mentre QUINTO ROGO svolse mansioni di assistente .
Inoltre i figli di RINALDO ( ALFIO, NERIO E FRANCO ) sono vissuti fino agli anni 50 , circa , nella CASA ROSSA utilizzata ora per raduni scout .
Purtoppo sia RINALDO , QUINTO e ALFIO ROGO sono da tempo scomparsi"

D: Com’era organizzato il campo?

R: Oltre alle varie gallerie, c’erano dei capannoni dove erano locate l’officina meccanica, il fabbro e la falegnameria. C’era, inoltre, una stanza dove venivano tenuti gli stivali che la società ci metteva a disposizione.

D: All’incirca quante persone lavoravano in miniera?

R: Erano molte…quasi tutti gli uomini del comune vi lavoravano, ma c’erano anche molti dei paesi vicini, come Leonessa, Gavelli e Cascia; addirittura venivano dall’Abruzzo e dalla Calabria.

D: Durante la Seconda Guerra Mondiale le miniere divennero campo di prigionia e lavoro. Lei ne sa qualcosa?

R: Si, ricordo che quando vennero portati i prigionieri a Ruscio, io aiutai a montare le loro baracche.

D: Chi erano questi prigionieri? E cosa facevano alle miniere?

R: La maggior parte dei prigionieri era costituita da soldati slavi…credo che siano stati circa 200 o 300. ricordo che svolgevano gli stessi nostri lavori e spesso venivano portati nella campagna ( vicino alla Fonte dell’Asola ) a raccogliere patate e granturco. Oltre agli slavi c’erano, però, anche tre indiani che, a differenza degli altri, si rifiutavano di lavorare.

D: E chi lavorava quale vantaggio aveva?

R: Chi lavorava poteva aver il doppio pasto e, se non ricordo male, prendeva anche un minimo di paga. So che lavoravano soltanto la mattina, visto che, essendo prigionieri, non potevano fare la notte.

D: Come era il “clima” all’interno delle miniere, durante quel periodo?

R: Non ci furono particolari problemi, poiché nessuno si ribellò. Soltanto una volta tre prigionieri riuscirono a fuggire e non furono più catturati; ricordo che inviarono alle guardie addirittura una cartolina “di smacco” da Fiume…ero arrivato ormai al confine! Poi con l’Armistizio tutti fuggirono e ci fu un bel po’ di caos, ma dopo la fine del ’45 le cose incominciarono ad andare a posto pian piano, anche se la crisi era tanta, visto che non c’era più lavoro.

D: Lei durante la guerra che mansioni svolgeva?

R: Io, tra le altre cose, ero guardiano degli attrezzi che i prigionieri usavano per lavorare. Per un breve periodo, poi, anch’io fui fatto prigioniero dai tedeschi, insieme ad altri miei compagni.

D: Ma voi che lavoravate in miniera non avevate l’esonero dalle armi?

R: Si, la maggior parte degli uomini che lavoravano a Ruscio erano esonerati dal servizio militare, poiché il lavoro in miniera era considerato un lavoro civile per le Forze Armate. Ma io, come tanti altri, non avevo l’esonero perché ero minorenne. Ricordo che ci trovavamo nei pressi di Casale Moretto, quando ci avvertirono che stavano arrivando i tedeschi. Eravamo all’incirca trentadue; una metà scappò verso Gavelli, mentre io, con altri quindici compagni, prendemmo la strada per Monte S. Vito. Camminammo tutta la notte, ma i tedeschi ci raggiunsero e riuscirono a catturarci. Tre di noi, Sereni Giuseppe, Ciampini Carlo ed un mio parente, un certo Luigi, vennero uccisi, mentre io fui portato alla Rocca di Spoleto, dove fortunatamente stetti solo una settimana, visto che fui subito rilasciato per il fatto di essere minorenne. Mia madre non sapeva che ero stato fatto prigioniero; addirittura le dissero che ero stato ucciso e che il mio corpo era disperso da qualche parte…immaginate che emozione, quando mi vide tornare a casa!!

D: E con la fine della guerra che cosa accadde?

R: Con la fine della guerra le miniere vennero chiuse e, con l’arrivo degli inglesi, divennero un campo di addestramento ed esercitazioni. Fu un periodo abbastanza buono poiché, nonostante le miniere fossero inattive, molti di noi continuarono a fare diversi lavori per gli inglesi, ricevendo salari più elevati rispetto agli anni precedenti. Io stesso continuai a lavorare per gli inglesi; ero addetto alla cucina e prendevo circa 4000 lire a settimana.

D: C’era qualche momento di “aggregazione” fra voi lavoratori?

R: Diciamo che il tempo per “socializzare” non c’era o non era molto…non facevamo altro che lavorare! Forse uno dei pochi momenti di aggregazione era il 4 dicembre, giorno della festa di S. Barbara, protettrice dei minatori. In quell’occasione alle miniere veniva organizzato un pranzo per noi lavoratori ed i nostri familiari; ricordo che andavamo a prenderli con il camion “a carbonella” delle miniere.

D: Cosa le è rimasto più impresso del suo lungo periodo di lavoro alle miniere?

R: Ricordo che quella era veramente una vita faticosa, soprattutto quando si lavorava di notte e, con la stanchezza, ti “prendeva” anche una certa malinconia…stavi sempre con la speranza che qualcuno vedesse quello che facevi per vivere e magari, provando un po’ di compassione, ti portasse a lavorare altrove. C’erano, inoltre, anche delle “incomprensioni” e delle carenze da parte delle amministrazioni, che non hanno saputo gestire la miniera in maniera idonea e tale da “evitare” agli operai sacrifici inutili. Nonostante tutto, però, la miniera è stata anche un bene, sia per i locali, che per le persone che venivano da fuori, perché ha dato da mangiare a tante famiglie. E poi, in tempo di guerra, dovevamo anche accontentarci…dovevamo essere già felici solo per il fatto di avere un lavoro!

( Monteleone di Spoleto, 11 luglio 2007 )

Nostro intervistato è stato anche il signor Cicchetti Renato (foto sotto), che pur avendo trascorso soltanto poco tempo alle miniere, ci ha fornito interessanti notizie per il nostro lavoro.

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Il signor Cicchetti Renato

D: Salve, signor Renato. Quando iniziò la sua esperienza alle miniere di lignite di Ruscio?

R: Iniziò nel 1943, ma vi lavorai soltanto per un anno circa.

D: E che mansioni svolgeva all’interno della miniera?

R: Io ero “carrellista”, ero cioè addetto al carico dei “vagoni” ed al loro trasporto in superficie.

D: Voi “carrellisti”, quindi eravate una specie di “assistenti” per i minatori?!

R: Si, ogni minatore aveva un proprio “carrellista”…ricordo che io lavoravo con un certo Luigino di Rescia.

D: Come si presentavano internamente le gallerie?

R: Erano costituite da una galleria principale di circa 2mx2m e da gallerie laterali, o traverse, più strette. I binari percorrevano ogni galleria ed all’incrocio tra le traverse e la galleria principale c’erano delle piattaforme girevoli che consentivano facili manovre con i carrelli. Questi, dalle gallerie laterali, venivano spinti fino alla principale, dove venivano agganciati, uno dietro l’altro, ad un argano elettrico che li tirava in superficie

D: E come funzionava tecnicamente il processo di estrazione ?

R: Inizialmente veniva aperto il condotto principale o discenderia, che aveva una pendenza pari al 20% circa, lungo il quale si scendeva gradualmente, seguendo il banco. Questi condotti venivano opportunamente puntellati con travi e montanti in legno Le discenderie venivano interrotte da tratti pianeggianti, in cui vi era uno spazio apposito per la gestione del traffico dei carrelli, attraverso una rotonda metallica che permetteva di convogliare lateralmente i carrelli vuoti in entrata, favorendo l’inserimento nei binari dei carrelli carichi di lignite. Man mano che il minatore andava avanti con gli scavi e veniva sbancata la lignite, io caricavo i carrelli, che trasportavo poi fuori dalla galleria. Essendo i carrelli ribaltabili, la lignite veniva scaricata su un piano in pendenza, che terminava proprio sopra ad un camion. Lo spiazzale antistante l’imbocco della galleria, infatti, era sopraelevato rispetto alla strada dove si posizionavano i mezzi di trasporto, ma, molto spesso, la lignite veniva caricata con la pala. Una volta terminata l’estrazione del blocco di lignite lungo il primo tratto pianeggiante, si riapriva il prolungamento della discenderia verso il basso scavando poi lungo un nuovo piano.

D: Si ricorda quante erano le miniere e dove si trovavano precisamente?

R: Vi erano diversi ingressi, ognuno dei quali era disposto ad una distanza relativamente grande dai contigui. Io ne ricordo cinque:
- “Colle Scoppacamere”: miniera a banco scoperto e funzionante  con un sistema autonomo;
- “ Campo Nero”: miniera costituita sostanzialmente da una galleria piana che si inseriva al disotto del monte “Li colli”;
- “Prada di San Giuseppe”: miniera dotata di due ingressi e due tipi differenti di galleria, l’una piana e l’altra discenderia, e geograficamente sita nella parte sud del bacino, limitrofa a Villa Pulcini e Villa Ciavatta;
- “Vaglioni”: miniera posta ad Est . Costituita da due discenderie, un argano e tre edifici esterni per le maestranze e la manutenzione. Le due discenderie percorrevano l’interno della terra ad una pendenza del 22 %, scendendo parallelamente ad una distanza assiale pari ad 8 metri circa. Queste erano messe in contatto mediante gallerie che si alternavano ogni 15-20 metri, ma soltanto una delle due discenderie era attiva; l’altra era percorsa da due impianti, uno per l’entrata dell’aria e l’altro per l’aspirazione dell’acqua che spesso allagava i condotti. Tuttavia entrambe le discenderie erano dotate di due coppie di binari, ma solo lungo i binari di quella attiva  scendevano i carrelli vuoti e salivano quelli pieni, mediante un argano a motore elettrico posto all’esterno. All’intersezione tra la discenderia e le gallerie interne vi era posto un dispositivo chiamato “raggiera”, che permetteva di deviare i carrelli scarichi provenienti dall’esterno, immettendo così quelli carichi che dovevano essere trasportati in superficie;
- “Vecchia cava”: miniera a banco scoperto, attiva fino al 1915 circa.

D: Da cosa era formato il vostro equipaggiamento?

R: Avevamo soltanto un particolare attrezzo chiamato “strappaccetta” e un acetilene, che ci veniva data dalla società, ma che in realtà pagavamo, detraendone il costo dal nostro stipendio.

D: E, in media, quanto prendevate?

R: Di preciso non ricordo; so solo che quello che ci davano bastava appena per sopravvivere!

D: Del campo di prigionia che venne creato alle miniere sa qualcosa?

R: So che la maggior parte dei prigionieri era costituita da soldati montenegrini, che venivano “impiegati” come lavoratori. Ricordo anche che, durante la costruzione della casa colonica, vennero “utilizzati” per trasportare le pietre che servivano ai muratori.

D: E sa quando vennero chiuse definitivamente le miniere?

R: Per quel che ricordo vennero chiuse dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ma non vorrei sbagliarmi.

D: Cosa le ha lasciato quest’esperienza?

R: Il lavoro in miniera è stato importante per tutti, soprattutto perché, in tempi così difficili, ha dato da mangiare a molte famiglie; allo stesso tempo, però, è stata anche un’esperienza davvero dura, soprattutto per tanti giovani come me…è per questo che ho resistito soltanto un anno ed ho preferito andare a fare il taglialegna!

( Ruscio, 16 luglio 2007 )

Un’ulteriore testimonianza diretta sulle miniere è quella del signor Giovannetti Sante (foto sotto), che pur avendo trascorso soltanto pochi anni di lavoro a Ruscio, si è reso subito disponibile ad una nostra intervista, per raccontarci della sua, pur non lunghissima, esperienza.

Il signor Giovannetti Sante

D: Quando iniziò la sua esperienza alle miniere di lignite di Ruscio?

R: La mia esperienza alle miniere ebbe inizio il 10 ottobre del 1940…avevo solo quattordici anni.

D: E per quanto tempo vi lavorò?

R: Lavorai in miniera per circa due anni e mezzo, perché il 25 luglio del 1943, con la caduta del Fascismo, le miniere vennero chiuse, per essere poi riaperte poco dopo. Ma io, a quel tempo, non ripresi il mio lavoro, perché fui portato via dai tedeschi. Ricordo che un giorno, alcuni anni dopo, capitai alle miniere per curiosità e trovai tutti gli imbocchi delle gallerie murati. Ormai quella grande “macchina” aveva cessato ogni attività!

D: Quando vi lavorò, lei che mansioni svolgeva?

R: Iniziai come manovale, ma poi, con il passar del tempo, “progredii”…incominciai così a lavorare in galleria. Ero addetto al funzionamento delle pompe che servivano per svuotare i pozzi d’acqua che si formavano man mano che i minatori andavano avanti con gli “scavi”. Poi fui addetto anche al funzionamento degli argani e successivamente, quando le miniere divennero campo di prigionia e lavoro, mi occupai del montaggio delle baracche per i prigionieri.

D: Quante ore lavoravate ogni giorno?

R: Lavoravamo otto ore, poiché la giornata era articolata su tre turni: dalle 6.00 alle 14.00, dalle 14.00 alle 22.00 e dalle 22.00 alle 6.00. I turni variavano all’incirca ogni settimana. Spesso, però, capitava che la direzione della miniera ci dava il lavoro a “cottimo”, come quando noi ragazzi montammo le baracche dei prigionieri di guerra. Ci davano il cottimo per finire prima il lavoro e noi, anche se dovevamo fare una o due ore in più, le facevamo volentieri…tanto poi ci venivano riconosciute!

D: E a quanto ammontava la vostra paga?

R: Se non ricordo male, a noi ragazzi davano dai 16 ai 18 soldi l’ora. Ricordo che il mese di maggio, quando “creammo” queste baracche, portai a casa 350 lire. Era davvero tanto, se consideriamo che mio padre, che era il postino del paese e prendeva quindi lo stipendio da portalettere, ogni mese portava a casa 150 lire!!!

D: Come erano “organizzate” le miniere?

R: Ricordo che c’erano tre imbocchi principali, dei quali due erano discenderie, ma qualcuno mi disse che, un tempo, c’erano anche degli sbancamenti all’aperto. Oltre alle varie gallerie c’erano poi dei capannoni dove si trovavano la falegnameria, il fabbro e l’officina meccanica. (vedere foto 11)

D: A quel tempo quante persone lavoravano con lei in miniera?

R: Vi lavoravano all’incirca duecento o trecento persone. La maggior parte era del comune di Monteleone, di Cascia e Leonessa, ma c’era anche qualcuno di Terni, come il gommista Pilucca, o di altre regioni o città, come l’Abruzzo, la Calabria e Bergamo. Ricordo che nel periodo di guerra, tanti giovani che stavano sotto le armi, facendone richiesta, ottenevano un esonero per venire a lavorare in miniera; questo, infatti, era considerato un lavoro civile per le Forze Armate.

D: Ricorda i nomi di qualche suo compagno di lavoro?

R: Ricordo che in falegnameria lavoravano Paolo Carmignani e “Felicetto”; in officina, oltre al gommista Pilucca, c’era Francesco Perleonardi, mentre tra i minatori ricordo Peppe Sereni, che venne poi catturato e ucciso dai tedeschi, ed un certo “Bronzo” di Butino.

D: Quali strumenti utilizzavate in miniera?

R: Oltre all’acetilene, avevamo un particolare attrezzo che chiamavamo “strappaccetta” o “male e peggio”, che veniva usato sia per scavare, che per “rompere” i grossi pezzi di lignite che venivano estratti.

D: E la lignite estratta dove veniva portata?

R: Serviva soprattutto per alimentare le fornaci delle acciaierie e delle fabbriche d’armi. Veniva trasportata, mediante autotreni della ditta Brunelli di Civita Castellana, verso Le Marmore, Piediluco e Serravalle, dove poi veniva caricata sui treni che la portavano a Terni o ovunque ne veniva fatta richiesta.

D: E del periodo in cui la miniera venne “trasformata” in campo di prigionia, cosa ricorda?

R: In quel periodo, come ho già detto precedentemente, a noi ragazzi venne incaricato di montare le baracche per i prigionieri. Questi, che erano prevalentemente soldati slavi, lavoravano insieme a tutti gli altri, svolgendo anche i più duri compiti in galleria. Ricordo, però, che c’era qualcuno, come tre prigionieri indiani, che si rifiutavano di svolgere qualsiasi attività.

D: E chi lavorava, che vantaggi aveva?

R: Ricordo che oltre a quello che veniva concesso ai prigionieri dal Governo italiano, essi ricevevano anche aiuti umanitari e forse il vantaggio per chi decideva di prestare il proprio servizio in miniera, era appunto quello di ricevere qualcosa in più di ciò che arrivava al campo tramite la Croce Rossa. Un particolare che ricordo è che, a differenza nostra, ai prigionieri non mancavano mai le sigarette e, per questo, noi molto spesso barattavamo del cibo per uno o due pacchetti delle loro sigarette.

D: Qualcuno c’ha detto che, oltre ai soldati, ci sono stati anche degli internati politici. Lei ne sa qualcosa?

R: Si, alle miniere vennero portati anche degli internati politici, cioè uomini che avevano avuto scontri con i “capi” dei loro Paesi e che, a causa delle loro idee politiche, venivano esiliati. E tra i tanti, c’erano anche due ebrei, che io ebbi la possibilità di conoscere personalmente. Il comune di Monteleone di Spoleto, così come Cascia e Leonessa, zone di montagna in cui essi erano portati, era definito “comune di esiliati”.

D: E gli internati politici cosa facevano?

R: Essi non erano obbligati a lavorare, ma c’era chi decideva di farlo, ricevendo, in cambio, una regolare paga. L’unico obbligo che avevano era quello di recarsi ogni giorno in Caserma, per apporre la loro “firma di presenza”…erano controllati continuamente!

D: Dopo la fine della guerra cosa accadde?

R: Dopo l’8 settembre, sia i prigionieri, che i militari che facevano servizio di sorveglianza fuggirono. Alcuni giorni dopo, in quaranta circa, andammo alle miniere per prelevare le armi e tutto il vettovagliamento che era stato lasciato dai militari italiani, da quello che era ormai l’ex Regio Esercito. Prendemmo queste armi e nacque, così, nel comune di Monteleone di Spoleto, il primo gruppo armato di Resistenza del comprensorio umbro. Più tardi nacquero altri gruppi di Resistenza, come a Terni, Foligno e Spoleto, che infine, con il nostro, confluirono nella Brigata Gramsci.

D: Cosa le ha lasciato questa esperienza?

R: Nonostante il lavoro in miniera fosse un lavoro durissimo, era una risorsa non indifferente e non soltanto per le persone della zona…grazie alle miniere, almeno un componente di ogni famiglia aveva uno stipendio sicuro!

( Monteleone di Spoleto, 15 luglio 2007 )

Ulteriori notizie per la nostra ricerca ci sono state date dal signor Perleonardi Francesco (foto sotto), che abbiamo incontrato a Roma e che ci ha raccontato dei suoi lunghi anni di lavoro in miniera.

Il signor Perleonardi Francesco

D: Salve signor Francesco, abbiamo saputo che lei ha lavorato nelle miniere di lignite di Ruscio. Quando ha iniziato?

R: Ho iniziato nel ’36-’37.

D: E per quanti anni vi ha lavorato?

R: Vi ho lavorato per circa 8-10 anni, fino a poco dopo la fine della guerra.

D: Si ricorda quante erano le miniere e come si chiamavano?

R: Le prime erano le “Talpe”, che andavano dai capannoni di Romano Giovanetti, fino alla strada carrabile di Leonessa, sotto il monte Ato. Poi c’erano tre “Discenderie”, due delle quali andavano verso Villa Ciavatta, mentre la terza si trovava a Camponero. Infine c’era un’ulteriore galleria a Scoppacamere, dove si allarga il fiume Volga. Quest’ultima miniera si trovava sopra una collina e per trasportare la lignite “a valle” venivano utilizzati due carrelli, facendo in modo che quello carico, che scendeva, facesse salire quello vuoto. A metà percorso c’era un “cuore” con due scambi, perché per creare due linee, visto che a quei tempi non si trovavano i binari, bisognava recuperarne una per tutte e due. Per questo motivo venne creato uno scambio semi-automatico, alla cui realizzazione partecipai attivamente anche io.

D: Perché, quali erano le sue mansioni?

R: Io facevo parte dell’officina meccanica; riparavo i carrelli, i camion, ecc.

D: Quindi, oltre alle gallerie, c’erano anche delle “officine”?

R: Si, oltre all’officina meccanica ed al garage per camion, c’erano anche un fabbro ed una segheria, dove si tagliavano i tronchi e le tavole che servivano per puntellare le gallerie.

D: E dove si trovavano di preciso queste “officine”?

R: Si trovavano nei pressi della cabina elettrica.

D: Tornando alle miniere, c’erano delle differenze tra le Talpe e le Discenderie? Se si, quali?

R: Mentre le Talpe andavano “in piano”, le Discenderie, che si trovavano all’altezza di 40-50 metri, avevano una parte che “discendeva” fino a 100 metri ed una parte in piano. Nelle Talpe i carrelli venivano spinti a mano, mentre nelle Discenderie c’erano degli argani elettrici che agganciavano i carrelli, trasportando fuori quelli carichi. Una volta fuori, questi venivano spinti a mano fino ai capannoni dove venivano caricati i camion.

D: Come si svolgeva il lavoro all’interno delle gallerie?

R: Di preciso non lo so. So solo che man mano che si andava avanti, la galleria veniva puntellata e dopo aver sbancato la lignite, le travi venivano tolte, lasciando crollare le pareti. So che l’attrezzo che si usava per zappare era il “male e peggio”, particolare strumento che aveva da una parte una zappa e dall’altra un’accetta, mentre per prelevare dalla parete la lignite veniva usato il forcone. A volte venivano usate anche delle mine, facendo dei buchi alle pareti, dove veniva messa la polvere da sparo, che poi veniva fatta scoppiare.

D: Le miniere avevano un orario di chiusura?

R: No, si lavorava 24 ore su 24; ogni giorno si facevano tre turni da 8 ore: dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle 6. Ogni lavoratore variava il suo turno di lavoro, ma io, per il fatto di lavorare in officina, facevo sempre il turno della mattina.

D: A quanto ammontava la sua paga?

R: Il mio primo stipendio fu di 1 lira e 17 centesimi l’ora, quindi all’incirca di 9 lire al giorno; ma reclamai subito perché il salario era troppo basso e non era conveniente. Fortunatamente il mio primo giorno di lavoro era anche l’ultimo del mese, quindi dal secondo giorno mi aumentarono la paga, portandola a quella dei minatori, di circa 2 lire e 60 centesimi l’ora.

D: La mattina come si recava a lavoro?

R: Andavo a piedi fino a Ruscio, dove avevo lasciato la bicicletta che poi prendevo per recarmi alle miniere.

D: I suoi compagni di lavoro erano tutti del Comune di Monteleone?

R: No, c’erano molte persone di Gavelli, Cascia e Norcia. Pochi venivano da Poggiodomo e lo stesso fabbro, Emilio Rauco, era di Leonessa.

D: Come e dove veniva trasportata la lignite?

R: La lignite di Ruscio serviva ad alimentare le acciaierie di Terni, in conseguenza della crisi del carbone, durante il periodo di guerra. Veniva caricata sui camion e trasportata fino a Ferentillo, dove veniva poi trasferita sui vagoni del treno che la portava fino a Terni. Il trasporto era prevalentemente della ditta Brunelli di Civita Castellana, ma la miniera stessa possedeva un camion per il trasporto che andava a carbonella.

D: Come venivano caricati i camion?

R: I camion veniva caricati a mano, con la pala, oppure mediante le tramogge, dei grandi “contenitori” di legno, che avevano una forma a “V” e la capacità di un camion. Queste erano posizionate alla fine di una galleria ed i carrelli carichi arrivavano vicino alla tramoggia, da una parte e dall’altra, e vi scaricavano la lignite. Quando la tramoggia era piena, il camion veniva posizionato sotto e veniva caricato. Ricordo che io ed Emilio inventammo degli sportelli da aggiungere alle tramogge, che venivano azionati a mano, attraverso catenacci in ferro.

D: E quale era la resa della lignite?

R: La resa era molto bassa…si aveva all’incirca il 70% di scarto.

D: Che profondità aveva il banco di lignite?

R: Il banco era di circa 3 metri e mezzo. Furono poi fatti dei sondaggi per verificare la presenza di ulteriori banchi di lignite nei territori circostanti; il primo venne fatto nei campi di Villa Ciavatta, con una sonda a mano, mentre l’altro a Villa Pulcini, con una sonda a motore.

D: Quante persone lavoravano con lei in miniera?

R: Erano circa 200- 300 persone. Nei primi tempi, appena dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, il personale era pochissimo, perché la maggior parte degli uomini si trovava sotto le armi. Poi, dopo qualche tempo, molti di loro tornarono a Monteleone, riprendendo il lavoro in miniera. Furono esonerati dal servizio militare perché il lavoro in miniera era considerato un lavoro civile per le forze armate.

D: Ha ricordi di particolari avvenimenti che accaddero in miniera?

R: Un particolare avvenimento che ricordo è il ritrovamento, durante degli scavi a Scoppacamere, della testa di uno strano animale, dal quale si recuperò un molare di circa 10 cm.

D: E questo fu l’unico ritrovamento che si verificò?

R: No, so che anche nel ’15-’18, primi anni di apertura delle miniere, venne ritrovato un fossile di mammut.

D: Si verificavano mai degli incidenti all’interno delle gallerie?

R: Si, si verificavano spesso. Ricordo che alcuni rimasero feriti, come un certo Bernabei del Trivio ed alcuni di Leonessa, ma non ci furono mai dei morti, poiché, prima di crollare, le pareti delle gallerie iniziavano a scricchiolare e questo era il particolare “segnale” che “avvisava” i lavoratori dell’imminente cedimento.

D: Sappiamo che durante la guerra le miniere vennero trasformate in campo di prigionia. Può raccontarci qualcosa a riguardo?

R: Si, il campo di concentramento si trovava a Camponero. Vi erano rinchiusi principalmente soldati slavi, ma erano presenti anche degli indiani. Di tutti i prigionieri, soltanto gli slavi lavoravano ed io potevo avere a disposizione, per il mio lavoro, di chiunque di loro. Dopo i prigionieri militari vennero portati alle miniere anche degli internati politici, anch’essi in prevalenza slavi, che lavoravano, però, solo nei turni giornalieri, poiché, essendo prigionieri, non potevano fare la notte.

D: E dopo la guerra cosa accadde?

R: Finita la guerra molti prigionieri scapparono, altri diventarono partigiani, ma comunque la miniera continuò a lavorare ben poco, perché non c’era più la necessita della lignite. Poco dopo la fine della guerra, arrivarono gli inglesi, che trasformarono la miniera in un campo di esercitazioni, posizionando dei cannoni sopra Villa Ciavatta e facendo esercitazioni a bersaglio verso la Piccinesca.

D: Quindi, con l’arrivo degli inglesi, le miniere vennero chiuse?

R: Si, a quei tempi le miniere erano già chiuse, ma, nonostante ciò, molte persone di Monteleone continuarono a lavorarvi, svolgendo diversi servizi di manovalanza. E continuai a lavorarci io stesso, con mio fratello Mario, sempre in officina, occupandomi dei camion, delle motociclette e dei carri armati.

D: Possiede del materiale cartaceo risalente al periodo in cui lavorò in miniera?

R: Si, ho un contratto di lavoro in tedesco-italiano (vedere foto 4), firmato dal Prefetto di Perugia e dalle Forze Armate tedesche di Roma, poiché la sede della SMU (Società Mineraria Umbra), alla quale appartenevano le miniere di Ruscio, si trovava ai Parioli a Roma.

D: Cosa le ha lasciato quest’esperienza?

R: Sono stati anni difficili, ma credo che siano serviti a farmi maturare; come credo siano serviti a farmi crescere anche i rapporti che ho costruito con molti dei miei compagni e con molti dei prigionieri slavi che hanno lavorato con me e con i quali mi sono trovato benissimo. Ed è stato emozionante, per me, rincontrare, dopo molti anni, alcuni dei miei compagni o i loro figli.

( Roma, 5 giugno 2007 )

Ultimo caso, ma non per importanza, di testimonianza diretta, è quello del signor Vannicelli Angelo (foto sotto), che nonostante abbia lavorato alle miniere solo negli ultimi anni di apertura, ha contribuito ad incrementare le nostre notizie sul loro funzionamento.

Il signor Vannicelli Angelo

D: Salve signor Angelo. So che ha lavorato alle miniere di lignite di Ruscio; quando ha iniziato?

R: Ho iniziato a lavorare alle miniere nel 1950.

D: E per quanto tempo?

R: Vi ho lavorato soltanto per due anni.

D: Che mansioni svolgeva?

R: Io lavoravo in falegnameria, insieme a Paolo Carmignani…i nostri turni iniziavano e terminavano insieme. Il lavoro in segheria consisteva soprattutto nel tagliare le travi che servivano a puntellare le gallerie.

D: E il suo lavoro consisteva solo in questo?

R: No, molto spesso anche noi addetti alla falegnameria aiutavamo gli altri a posizionare i puntelli all’interno delle gallerie. E poi devo dire che alle miniere ho svolto diversi compiti…dove c’era bisogno, là mi mandavano! Molte volte ho lavorato accanto al fabbro e, all’occorrenza, ho caricato e scaricato i camion. Ricordo che, molte volte, quando la lignite veniva trasportata nel ternano, alcuni di noi venivano portati a Piediluco, perché c’era bisogno di personale per scaricare i camion e ricaricare la lignite sui vagoni che l’avrebbero poi portata a destinazione.

D: Chi trasportava la lignite?

R: In prevalenza il trasporto della lignite era della ditta Brunelli di Civita Castellana, ma c’erano altri trasportatori che spesso venivano a prenderla, come Dell’Omo de L’Aquila, che ricordo aveva un camion Alfa Romeo, ed i F.lli Battisti di Leonessa.

D: E dove veniva portata la lignite estratta?

R: Oltre ad essere portata alle acciaierie di Terni ed a Treviso, essa serviva ad alimentare soprattutto alcune delle varie fornaci del centro Italia, come Viterbo, Bagnaia, Siena e L’Aquila.

D: La lignite veniva trasportata così come veniva estratta?

R: No, per quanto ricordo, veniva spezzata in base all’utilizzo che ne veniva fatto. C’era, all’interno del campo, anche un frantoio, che veniva utilizzato per macinarla. E una volta macinata, la lignite veniva posta, mediante un nastro trasportatore, all’interno di un silos che, all’occorrenza, veniva aperto per caricare i camion.

D: Ricorda come erano organizzate le miniere e come si svolgeva il lavoro?

R: Ricordo che, a quei tempi, c’erano due Discenderie parallele, cioè due gallerie che, oltre ad avere una parte in piano, “discendevano” per circa 30-40 metri. Oltre alle gallerie principali, esistevano anche gallerie laterali, chiamate “camere”. Man mano che si andava avanti con il lavoro, le gallerie venivano puntellate, per evitare che franassero, ma una volta essere state “ripulite” del tutto dalla lignite, i puntelli venivano tolti, lasciando “cadere” le pareti.

D: E, in generale, il lavoro come era scandito?

R: Le miniere erano sempre aperte ed il lavoro era articolato in tre turni di otto ore ciascuno, dalle 6.00 alle 14.00, dalle 14.00 alle 22.00 e dalle 22.00 alle 6.00. I turni non erano sempre gli stessi, nel senso che noi lavoratori variavamo spesso l’orario del lavoro.

D: E ricorda come si “presentava” esternamente il campo?

R: Oltre alle varie gallerie e spiazzali di “scarico” per la lignite, c’era anche un baraccone, all’interno del quale si trovavano l’officina meccanica, la falegnameria ed il fabbro.

D: Nonostante lei abbia iniziato a lavorare soltanto nel 1950, sa qualcosa riguardo alla “trasformazione” delle miniere in campo di prigionia?

R: Purtroppo ricordo molto poco…a quei tempi ero un ragazzino! So soltanto che durante la Seconda Guerra Mondiale una buona parte dei lavoratori delle miniere di Ruscio era costituita da soldati, soprattutto slavi, fatti prigionieri, a cui vennero poi aggiunti anche degli internati civili. Ricordo poi che, una volta finita la guerra, con la chiusura delle miniere e l’arrivo degli inglesi, l’area divenne anche campo di esercitazioni. E così rimase fino alla loro riapertura, che credo sia avvenuta intorno al 1948.

D: E quando vennero richiuse?

R: Le miniere furono definitivamente chiuse nel 1952…è per questo che vi lavorai soltanto due anni!

( Monteleone di Spoleto, 11 luglio 2007 )

Foto 1_Forcone del signor Agabiti Domenico Antonio,
che veniva utilizzato in miniera

Foto 2_Filo spinato del campo di prigionia delle miniere

Foto 3_Immagine panoramiche delle miniere di Ruscio

Foto 4_Documento di assunzione del signor Perleonardi Francesco

Numerose sono state le incongruenze che abbiamo riscontrato tra i vari racconti, ma era inevitabile che vi fossero, dopo tutti questi anni!
Ma nonostante molte notizie siano incerte ed imprecise, crediamo fermamente che, grazie a questo lavoro, siamo riusciti a “scovare”, nelle memorie di questi “personaggi”, un pezzo importante della loro e della nostra storia e siamo sicuri che, in questo modo, faremo “rivivere”, a tante persone, emozioni che avevano vissuto e che forse avevano ormai dimenticato…
E magari riusciremo ad “appassionare”, con questi racconti, giovani che, come noi, non hanno mai conosciuto una parte, in qualche modo, importante della loro “vita”.
Di questo ringraziamo di cuore tutte le persone che, con il loro entusiasmo e la loro pazienza, si sono messe a nostra disposizione, raccontandoci tutto quello che la loro mente ed il loro cuore potevano ancora ricordare…

 

 
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