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C’è poco da ridere! Il pensiero dei disegnatori satirici sulla Grande Guerra PDF Stampa E-mail
La Barrozza - Natale 2018 - anno XXVII n.3
Scritto da Valentina Marino   


Esattamente come la luce di un lampo raggiunge prima i nostri occhi rispetto a quanto faccia il boato di un tuono con il nostro apparato uditivo, così le immagini ci colpiscono (in positivo o in negativo) molto più in fretta di quanto faccia la parola scritta, attirandoci o respingendoci, destando interesse o noia, stimolandoci o lasciandoci indifferenti. Infatti, nella rapida selezione delle informazioni che è alla base del meccanismo dell’apprendimento, acuito da un contesto sempre più straboccante di impulsi comunicativi, l’immagine (nelle sue varie forme e funzioni) diventa spesso un catalizzatore di attenzione, un mezzo favorito per la comunicazione di un messaggio, un veicolo con un importante ascendente sull’osservatore.

Dalle incisioni rupestri preistoriche alle modalità digitali dell’epoca contemporanea, si può dire che l’immagine, attraverso l’arte, continui ad essere una delle forme comunicative privilegiate dall’uomo. Contrariamente al mutare dei gusti e delle tecniche di rappresentazione, ciò che non cambia è proprio la fonte d’ispirazione: la vita e l’uomo stesso. L’arte è infatti un’opportunità per riflettere su se stessi e sul mondo ed è un valore in grado di generare altri valori.

Nella mostra “I caduti di Ruscio della Prima Guerra Mondiale (1918-2018)”, tenuta a Ruscio (Monteleone di Spoleto, PG) il 18-19 agosto 2018, nell’ambito delle manifestazioni nazionali conclusive per il Centenario della Prima Guerra Mondiale, sono stati esposti dieci pannelli dedicati ai caduti di questa terra, ognuno con una piccola-grande “storia”, purtroppo tristemente terminata in quell’infausto conflitto. I pannelli sono stati corredati da immagini a firma di alcuni grandi artisti del primo Novecento che espressero, attraverso la loro arte, il proprio pensiero amaro, il rifiuto della belligeranza, l’afflizione per le numerose vite perdute.

 

 

Collage delle varie intestazioni dei pannelli della Mostra 

 

Giuseppe Scalarini (Mantova, 1873 - Milano, 1948) appose il suo singolare marchio (il disegno di una piccola scala seguita dalla scritta “rini”) ad alcune celebri illustrazioni satiriche. Assai nota è La guerra, datata 1914, nella quale una donna (madre, sorella, moglie, fidanzata, amica…), vestita di un lungo abito nero, piange sconsolatamente, abbandonandosi sopra la minacciosa canna di un cannone ancora fumante, che, freddo emblema di guerra, stride con il profondo sentimento di dolore della donna per il lutto subito. Allontanandosi da questa idea di madre amorevole e angelo del focolare, Scalarini nel 1920 disegna invece una donna che imbraccia un fucile e prende la mira, segno di una violenza ormai dilagante. Se nella cartina geografica disegnata dall’artista nel 1911, anno della guerra libica, solo l’Africa assume le minacciose sembianze di un grande teschio, annunciatore di morte (La terra dei morti), nella mappa del 1914, in uno scenario sempre più sanguinario e allargato, è invece l’Europa che prende i lineamenti di un teschio (Europa, terra dei morti). Intanto, uno scheletro in abiti militari, con una spada recante sul fodero la scritta “guerra”, semina morte gettando a terra sementi a forma di piccoli, inquietanti teschi (La semina, 1920). L’Italia entra in guerra il 24 maggio 1915 ma è del tutto impreparata ad affrontare le conseguenze di tale scelta; i nostri soldati si trovano così a combattere per una causa che non comprendono e una patria solo da poco conosciuta. Malamente equipaggiati, Scalarini ne ritrae gli scarponi con Suole di cartone, facili al logorio, sul quale si staglia infatti un grande buco nero (La breccia, 1916).

Gabriele Galantara (Montelupone, 1865 - Roma, 1937) in una vignetta del 1911 (Valeva proprio la pena?) in cui si firma “RataLanga” (anagramma del suo cognome), descrive la guerra italo-turca sotto forma di un grande osso con la scritta “Tripoli”, tenuto tra le mani da uomo trasandato, vecchio e stanco (il popolo italiano), mentre sullo sfondo si stagliano le vestigia della guerra: i corpi dei suoi compagni, aggrovigliati in “mucchietti” senza vita, tutt’uno con le loro armi.

George Grosz (Berlino, 1983 - 1959), pittore e illustratore tedesco, denunciò il pericoloso militarismo prenazista e lo rappresentò satiricamente nelle sue opere, venendo più volte condannato per “oltraggio al Reich”. Suo il disegno di un minuscolo uomo, un civile in abiti borghesi, che sta per essere afferrato e schiacciato da un gigantesco soldato austriaco, dal volto ghignante e satiresco (illustrazione del 1927 per la trasposizione teatrale di Erwin Piscator del romanzo Il buon soldato Schwejk scritto da Jaroslav Hašek nel 1912).

 

 

Il pannello dedicato al Caduto Marco Angelini 

 

Il Cristo con la maschera antigas del 1927 gli guadagnò una nuova accusa, quella di blasfemia, con conseguente processo durato ben quattro anni. Il Cristo crocifisso, con il militaresco attributo della maschera antigas, fu infatti interpretato quale sacrilego invito del Cristo alla guerra. Ciò che Grosz intese invece rappresentare era, attraverso l’immagine dell’uomo per eccellenza, redentore dell’umanità, il popolo vittima di una guerra da altri imposta, ovvero il nuovo sacrificio. La PAX piangente di Scalarini (particolare del disegno La società per la pace, 1912) compiange il nuovo, triste destino verso cui la società si sta inesorabilmente avviando.

Da queste e dalle tante altre opere dell’epoca viene fuori il più veritiero, preponderante volto della guerra: una condizione dalle sembianze molto miserevoli e ben poco eroiche, tale da non lasciare che unicamente il vuoto, creato dall’assenza di padri, fratelli, mariti, amici, concittadini e persone care. Per la maggior parte di noi, oggi, non si tratta purtroppo che di una lista di nomi, ma alla loro memoria è dovuto almeno il tributo di una morte che non sia stata vana.

VISITA VIRTUALE DELLA MOSTRA "I CADUTI DI RUSCIO NELLA GRANDE GUERRA"
 

 
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