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Amor dammi quel fazzolettino, vado alla fonte e lo vado a lavar PDF Stampa E-mail
La Barrozza - Estate 2018 - anno XXVII n.2
Scritto da Valeria Reali   

C’era una volta… il giorno del bucato  

La recente ristrutturazione del lavatoio di Ruscio mi ha fatto tornare alla mente immagini passate che erano lì, quasi sepolte e subito per incanto venute fuori.
Ricordo perfettamente alcune delle donne rusciare che vi si recavano regolarmente per il gravoso lavoro del bucato, ricordo zia Irma, Maria di Compagnucci, Flavia, Irma Perelli… e ricordo perfettamente Ferminia che fino all’ultimo l’ha usato. Anche zia Maria ricorda che finché è stata al paese andava al lavatoio a fare il bucato, ma aggiunge anche che nonostante la fatica, era bello stare in compagnia delle altre, si rideva, si scherzava. Un punto di incontro.

 

La vecchia cannella, non ripristinata (foto arch. Micozzi - De Angelis)

 

Ma prima del lavatoio le donne rusciare erano obbligate a recarsi al fosso. E i mesi invernali non facevano certo sconti, il bucato si faceva comunque e l’acqua gelata faceva rimanere la biancheria attaccata alle mani. Nei periodi di secca di Vorga, poi, dovevano arrivare fino a Riu, il torrentello che scorre nei pressi di S. Maria, con l’acqua che veniva giù dalla mola del Trivio.

Per noi bambini degli anni ’60 spediti al paese per le vacanze e amen, quando ancora non esisteva nessun calendario di attività ricreative, era normale passare i tre interminabili mesi estivi  adeguandosi alla quotidianità rusciara e partecipare alle varie attività indigene.

Ecco, io avevo imparato, tra le altre cose, a seguire le fasi del bucato, che sicuramente non consisteva nel caricare ed avviare la lavatrice, anzi. Ma nei miei ricordi si parla già di sapone in polvere o altri additivi e detergenti più moderni. La mia era l’epoca di Calimero, ‘oh Ava come lava’. Avevo imparato però, a fare la ‘corona’, una sorta di ciambella ottenuta attorcigliando un canovaccio da mettere in testa per il trasporto del ‘capistiju’, tavola di legno usata per diversi scopi a Ruscio, in questo caso per trasportare la biancheria da risciacquare al fosso. Il divertimento, per me cittadina, consisteva nello scegliere la pietra più adatta per il lavaggio, abbastanza grande, levigata; consisteva nello stare con le mani a mollo senza essere sgridata perché stavo ‘lavorando’.

Sono zia Maria e Giulia che mi hanno raccontato della procedura faticosissima che loro, donne di campagna di una volta, dovevano seguire per svolgere questo duro lavoro.
Era un’operazione lunga e faticosa considerando anche che le famiglie erano molto più numerose di oggi. Proviamo a immaginare quanti panni accumulati!
La giornata iniziava presto: si faceva una prima passata ai panni, con spazzola di saggina, sapone, e molto olio di gomito. Il sapone era fatto in casa facendo bollire avanzi di grasso animale con aggiunta di soda caustica in opportune percentuali che permetteva il processo di saponificazione. Il miscuglio si lasciava raffreddare e, una volta solidificato, veniva tagliato in pezzi. 

 Dopo averla pretrattata,  si disponeva la biancheria sporca a strati, pezzo per pezzo, la più piccola in fondo e via via la più grande, in una grossa tinozza forata in basso (da qui il termine ‘bucato’?), rialzata da terra e sotto un secchio. Il cumulo veniva poi pigiato in modo che non rimanesse alcun vuoto, poi veniva coperto tutto con un grosso telo che avrebbe fatto da filtro, e su questo si spargeva cenere di legna in quantità proporzionata alla quantità del bucato; infine, sulla cenere, si versava l’acqua bollente fino a riempire il recipiente. Si otteneva la liscivia, un liquido grigiastro che aveva un grande potere pulente, sbiancante e sgrassante. Non dimentichiamo  che, poiché in casa non c’era acqua diretta, era stata recuperata alla fonte. I panni erano lasciati in ammollo una notte intera e l’operazione veniva ripetuta fino ad ottenere un liquido ‘pulito’.

 

 

Il Fossato di Ruscio, sullo sfondo il lavatoio e panni stesi ad asciugare. In primo piano, Cinzia e Carla Micozzi e Rita De Angelis, figlia di Marino. (foto Arch. Micozzi - De Angelis) 

     

Zia Maria racconta che non si sprecava niente, e che nonna Rosa il liquido raccolto, proprio perché sgrassante lo usava per lavare la lana filata prima da poterla trasformare in matasse e gomitoli.

Il giorno dopo le fatiche non erano finite, anzi, la biancheria bagnata veniva trasportata al fiume o al lavatoio pubblico per essere risciacquata e messa a stendere.

Le donne sbattevano i tessuti con forza sulle pietre per eliminare la cenere e il sapone, e poi li strizzavano bene. Qualsiasi posto si scegliesse però, non bastava una sola persona, c’erano delle fasi del lavoro che obbligava la presenza di più braccia, la cooperazione ed il mutuo aiuto era alla base della civiltà rurale. Ecco allora prendere in due un lenzuolo e torcerlo nelle opposte direzioni per strizzarlo bene, un po’ come la centrifuga della lavatrice. Solo a questo punto la giornata si poteva considerare finita, e con le pesanti ceste traboccanti di bucato, si faceva ritorno a casa e si potevano stendere i panni al sole, sparsi sopra cespugli

Mi viene da dire a questo punto, la lavatrice sì che è stata una rivoluzione, mi viene da dire che oltre allo sporco si porta via la durezza del lavoro domestico. E che, come lessi da qualche parte, “nel suo cestello infiliamo biancheria e ne tiriamo fuori tempo libero. Magari per leggere un libro”.

Dedicato a tutte le donne di Ruscio.

 
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