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La vita militare di Federico Vannozzi e l’Archivio della Memoria di Ruscio PDF Stampa E-mail
La Barrozza - Pasqua 2017 - anno XXVI n.1
Scritto da Valeria Reali   

Centodieci ottave, 880 versi scanditi, ritmati dalle rime alternate e baciate secondo lo schema ABABABCC. Il metro usato nei cantari trecenteschi, ci accompagna nella lettura del diario di Federico Vannozzi che il figlio Venanzio, per tutti Vincenzo, ci ha affidato affinché venga conservato nel nostro neonato Archivio della Memoria.

 

Il frontespizio del diario di Federico Vannozzi  

Precede il componimento vero e proprio una sorta di premessa dell’autore che presenta al lettore la sua opera spiegando i motivi e i metodi, le ragioni della scelta del metro perché nel suo paese nativo “era ancora molto in voga il canto dell’ottava rima, tanto è vero che nelle celebrazioni matrimoniali, s’invitavano i poetastri a rallegrare tutto il parentato riunitosi…. Così io molto appassionato di questo canto volli scriverci la mia vita militare”

Trascorrendo i miei dì per la campagna
Nella bella stagion che il suolo infiora
Quando è quel tempo più nessun si lagna
Nel mio mestier che poco si lavora        [n.d.A. pastore]
Se il sudor la mia fronte allor non bagna
Col lavor delle braccia almen qualche ora
Voglio che mi lavori il sentimento
Per far di me un' istorico argomento

Questo l’incipit del diario. Prosegue poi nella seconda ottava:

Quindici anni dopo il novecento
O millenovecento per ben dire
Chiamato fui alle armi e fu il momento
Che la gran guera venne a scaturire
L'Italia ancor non era in quel cimento
Ma il ventiquattro maggio ebbe a inveire
Per redimer dall'Austria Trieste e Trento
La sua bandiera tosto spiegò al vento

Il soldato Federico, di professione pastore, aveva soltanto la 2^ elementare. E si scusa di questo con il lettore, spiegando  nella sua premessa che “un uomo che a fatta solo la seconda elementare, non potrà fare di più. Poi il lettore troverà molte parole mozze e dialettali, che per consonare i miei versi o dovuto usare.”
I protagonisti della Grande Guerra sono stati soprattutto loro, gli umili:  recuperare i loro scritti è come ridare loro identità personale e protagonismo storico.
A molti la testimonianza scritta è servita per dire, a caldo o a distanza di anni: io c’ero!
O semplicemente a farsi coraggio in uno scenario così devastante come quello che stavano vivendo.

Grazie a queste testimonianze private di soldati che combatterono la guerra misurandosi con la trincea, è stato possibile stabilire un rapporto tra la storia generale e le storie dei singoli uomini, il rapporto tra chi impartiva ordini diretti a migliaia di soldati e chi, in trincea, tra i reticolati, o a ridosso della prima linea, doveva eseguirli.
Con semplici e diretti versi ci racconta del cibo insufficiente, degli orrori, i morti, i bombardamenti e le marce estenuanti. Ci racconta della quotidiana frequentazione con la morte della vita in trincea, dove, appena arrivato si vide “più compagni comparire ricoperti di fango e di lordure, spiegando poi nella nota a fondo pagina che, soprattutto nel fronte carsico i soldati erano costretti a non muoversi, perciò perfino i loro bisogni erano costretti a fare sul posto e in quello stesso posto la notte qualcuno andava a coricarcisi.
Scorrendo ancora nella lettura ritroviamo citati, quasi sussurrati, episodi e luoghi del conflitto e nomi di amici e paesani con cui ha vissuto quei tragici momenti, come Isidoro Vannozzi, di Monteleone di Spoleto e di lui così descrive la morte nell’11^ottava spiegando, nella nota, che si trovava nel suo stesso reggimento:

10
Pur da lontan facevan impressione
Quell’arsiccie colline denudate
Che siedon tra Gorizia e Monfalcone
Forte battute dalle cannonate
Distrutta fu tutta la piantaggione
Co’ la continua pioggia di granate
Neanche un misero sterpo era restato
che il formidabil fuoco avea bruciato

11
Da Giove stesso parea fulminato
Quel luoco scabbro ove d’Italia i figli
Stavano oprando ognun ben rassegnato
Per affrontar di guerra i gran perigli
Lì v’era un mio paesan che sfortunato    (1)
Fu tanto tanto che li duri artigli
Della ria morte mi rapiron quello
Che una granata gli schiacciò il cervello

12
Ed io lo piansi quel caro fratello
Ove il piangere nullo era in quel luoco […]


Avevamo già incontrato Isidoro Vannozzi nella nostra precedente ricerca dei caduti della Valnerina nella Grande Guerra. Si legge sul suo foglio matricolare: soldato di leva 1^ categoria, 148° Reggimento Fanteria “Ucciso il 26 agosto 1915 nel combattimento di Sella di S. Martino”
http://valnerina1915-1918.it/caduti/

 

Vincenzo Vannozzi e Signora (2017, foto V. R.)  

E poi ancora altri luoghi tristemente conosciuti, come nella ventisettesima e ventottesima ottava dove, solo al pronunciare il nome Mrzli, quel monte, “ove natura forse l’avrà eretto per farci tanta gente trucitare”, ancora incute timore e paura per le battaglie patite dai nostri soldati.

[…]
Il ripiegammo e allo spuntar dei rai 
[n.d.A. raggi, al far del giorno]
Del quarto dì ci fecero tornare
Per quel detto riposo in un paesetto
Che siede tra Tolmino e Caporetto

27
Il nome di codesto io non l’o detto
Che in italiano mal si fa chiamare
E lì si stiede meno d’un mesetto
Poi si venne sul monte a ritornare
Ove natura forse l’avrà eretto
Per farci tanta gente trucitare
Merzli di tal monte e il nome vero
Che siede tra Tolmino e il Montenero

28
Mentre insidioso piano lo straniero
Tende per rivarcà il vecchio confino
Qui sembrò proprio che ci fu un mistero
Per sfondare le linie di Tolmino
Sotto la pioggia d’un autunno nero
Il ventiquattro ottobre nel mattino    
([n.d.A. 21/10/1917]
Dopo molte ore di bombardamento
Il nemico avanzar dai lati sento

E “sotto una pioggia d’un autunno nero il ventiquattro ottobre nel mattino dopo molte ore di bombardamento” viene fatto prigioniero e portato in Germania.
Ebbe in quei momenti la percezione netta e nitida che “altra fase di vita incominciava”.[…] Col cuore palpitante per davvero mi volsi indietro ed incominciai a dire Addio mia patria addio bel suol natio padre e madre e fratelli a tutti addio […] e per tre giorni e notti camminai e da mangiar non ce ne davan mai”
Il viaggio di circa otto giorni per il campo di prigionia, viene fatto in vecchi treni, tutti stipati  in vagoni con il tetto rotto da dove entrava la neve e il vento gelido di nord-est. E nel campo ritrova un altro paesano, Bevilacqua Pietro.
Il lavoro pesante del campo, le cattive condizioni igieniche e alimentari, la presenza dei pidocchi, tutto contribuisce a debilitare il suo stato fisico portandolo ad una lunga ed estenuante malattia che non gli permetterà neanche di partire con i suoi commilitoni “Quando si vide l’ordine arrivare di ritornare ognun dov’era nato”.

L’unico a rimanere con lui soltanto un romano, Pasqualetti Giovanni, compagno già dal fronte, che non lo abbandona neanche quando verrà  trasferito in un ospedale olandese prima e in Francia poi, fino a riuscire a tornare a casa il 5 novembre 1919 quando di sua libertà giunse il momento.

Desideriamo lasciare a lui il finale di questo testo che non vuole certo avere pretese storiografiche ma essere un omaggio a quanti hanno sofferto la condizione bellica per tutti noi.

Giunto sono anche al fin dell’argomento
Poiché della mia vita militare
D’altre cose importanti io non rammento
E di sciocchezze no ne vo parlare
Or voi miei lettor se vi presento
Pien d’errori il mio scritto perdonare
Dovrete che la mia debole mente
Fae piu' che tanto non e' competente.

 


 
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