Centodieci ottave, 880 versi scanditi, ritmati dalle rime alternate e baciate secondo lo schema ABABABCC. Il metro usato nei cantari trecenteschi, ci accompagna nella lettura del diario di Federico Vannozzi che il figlio Venanzio, per tutti Vincenzo, ci ha affidato affinché venga conservato nel nostro neonato Archivio della Memoria. Il frontespizio del diario di Federico Vannozzi Precede il componimento vero e proprio una sorta di premessa dell’autore che presenta al lettore la sua opera spiegando i motivi e i metodi, le ragioni della scelta del metro perché nel suo paese nativo “era ancora molto in voga il canto dell’ottava rima, tanto è vero che nelle celebrazioni matrimoniali, s’invitavano i poetastri a rallegrare tutto il parentato riunitosi…. Così io molto appassionato di questo canto volli scriverci la mia vita militare” Trascorrendo i miei dì per la campagna Nella bella stagion che il suolo infiora Quando è quel tempo più nessun si lagna Nel mio mestier che poco si lavora [n.d.A. pastore] Se il sudor la mia fronte allor non bagna Col lavor delle braccia almen qualche ora Voglio che mi lavori il sentimento Per far di me un' istorico argomento Questo l’incipit del diario. Prosegue poi nella seconda ottava: Quindici anni dopo il novecento O millenovecento per ben dire Chiamato fui alle armi e fu il momento Che la gran guera venne a scaturire L'Italia ancor non era in quel cimento Ma il ventiquattro maggio ebbe a inveire Per redimer dall'Austria Trieste e Trento La sua bandiera tosto spiegò al vento Il soldato Federico, di professione pastore, aveva soltanto la 2^ elementare. E si scusa di questo con il lettore, spiegando nella sua premessa che “un uomo che a fatta solo la seconda elementare, non potrà fare di più. Poi il lettore troverà molte parole mozze e dialettali, che per consonare i miei versi o dovuto usare.” I protagonisti della Grande Guerra sono stati soprattutto loro, gli umili: recuperare i loro scritti è come ridare loro identità personale e protagonismo storico. A molti la testimonianza scritta è servita per dire, a caldo o a distanza di anni: io c’ero! O semplicemente a farsi coraggio in uno scenario così devastante come quello che stavano vivendo. Grazie a queste testimonianze private di soldati che combatterono la guerra misurandosi con la trincea, è stato possibile stabilire un rapporto tra la storia generale e le storie dei singoli uomini, il rapporto tra chi impartiva ordini diretti a migliaia di soldati e chi, in trincea, tra i reticolati, o a ridosso della prima linea, doveva eseguirli. Con semplici e diretti versi ci racconta del cibo insufficiente, degli orrori, i morti, i bombardamenti e le marce estenuanti. Ci racconta della quotidiana frequentazione con la morte della vita in trincea, dove, appena arrivato si vide “più compagni comparire ricoperti di fango e di lordure, spiegando poi nella nota a fondo pagina che, soprattutto nel fronte carsico i soldati erano costretti a non muoversi, perciò perfino i loro bisogni erano costretti a fare sul posto e in quello stesso posto la notte qualcuno andava a coricarcisi. Scorrendo ancora nella lettura ritroviamo citati, quasi sussurrati, episodi e luoghi del conflitto e nomi di amici e paesani con cui ha vissuto quei tragici momenti, come Isidoro Vannozzi, di Monteleone di Spoleto e di lui così descrive la morte nell’11^ottava spiegando, nella nota, che si trovava nel suo stesso reggimento: 10 Pur da lontan facevan impressione Quell’arsiccie colline denudate Che siedon tra Gorizia e Monfalcone Forte battute dalle cannonate Distrutta fu tutta la piantaggione Co’ la continua pioggia di granate Neanche un misero sterpo era restato che il formidabil fuoco avea bruciato 11 Da Giove stesso parea fulminato Quel luoco scabbro ove d’Italia i figli Stavano oprando ognun ben rassegnato Per affrontar di guerra i gran perigli Lì v’era un mio paesan che sfortunato (1) Fu tanto tanto che li duri artigli Della ria morte mi rapiron quello Che una granata gli schiacciò il cervello 12 Ed io lo piansi quel caro fratello Ove il piangere nullo era in quel luoco […] Avevamo già incontrato Isidoro Vannozzi nella nostra precedente ricerca dei caduti della Valnerina nella Grande Guerra. Si legge sul suo foglio matricolare: soldato di leva 1^ categoria, 148° Reggimento Fanteria “Ucciso il 26 agosto 1915 nel combattimento di Sella di S. Martino” http://valnerina1915-1918.it/caduti/
Vincenzo Vannozzi e Signora (2017, foto V. R.) E poi ancora altri luoghi tristemente conosciuti, come nella ventisettesima e ventottesima ottava dove, solo al pronunciare il nome Mrzli, quel monte, “ove natura forse l’avrà eretto per farci tanta gente trucitare”, ancora incute timore e paura per le battaglie patite dai nostri soldati. […] Il ripiegammo e allo spuntar dei rai [n.d.A. raggi, al far del giorno] Del quarto dì ci fecero tornare Per quel detto riposo in un paesetto Che siede tra Tolmino e Caporetto 27 Il nome di codesto io non l’o detto Che in italiano mal si fa chiamare E lì si stiede meno d’un mesetto Poi si venne sul monte a ritornare Ove natura forse l’avrà eretto Per farci tanta gente trucitare Merzli di tal monte e il nome vero Che siede tra Tolmino e il Montenero 28 Mentre insidioso piano lo straniero Tende per rivarcà il vecchio confino Qui sembrò proprio che ci fu un mistero Per sfondare le linie di Tolmino Sotto la pioggia d’un autunno nero Il ventiquattro ottobre nel mattino ([n.d.A. 21/10/1917] Dopo molte ore di bombardamento Il nemico avanzar dai lati sento E “sotto una pioggia d’un autunno nero il ventiquattro ottobre nel mattino dopo molte ore di bombardamento” viene fatto prigioniero e portato in Germania. Ebbe in quei momenti la percezione netta e nitida che “altra fase di vita incominciava”.[…] Col cuore palpitante per davvero mi volsi indietro ed incominciai a dire Addio mia patria addio bel suol natio padre e madre e fratelli a tutti addio […] e per tre giorni e notti camminai e da mangiar non ce ne davan mai” Il viaggio di circa otto giorni per il campo di prigionia, viene fatto in vecchi treni, tutti stipati in vagoni con il tetto rotto da dove entrava la neve e il vento gelido di nord-est. E nel campo ritrova un altro paesano, Bevilacqua Pietro. Il lavoro pesante del campo, le cattive condizioni igieniche e alimentari, la presenza dei pidocchi, tutto contribuisce a debilitare il suo stato fisico portandolo ad una lunga ed estenuante malattia che non gli permetterà neanche di partire con i suoi commilitoni “Quando si vide l’ordine arrivare di ritornare ognun dov’era nato”. L’unico a rimanere con lui soltanto un romano, Pasqualetti Giovanni, compagno già dal fronte, che non lo abbandona neanche quando verrà trasferito in un ospedale olandese prima e in Francia poi, fino a riuscire a tornare a casa il 5 novembre 1919 quando di sua libertà giunse il momento. Desideriamo lasciare a lui il finale di questo testo che non vuole certo avere pretese storiografiche ma essere un omaggio a quanti hanno sofferto la condizione bellica per tutti noi. Giunto sono anche al fin dell’argomento Poiché della mia vita militare D’altre cose importanti io non rammento E di sciocchezze no ne vo parlare Or voi miei lettor se vi presento Pien d’errori il mio scritto perdonare Dovrete che la mia debole mente Fae piu' che tanto non e' competente.
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