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Il più giovane dei partigiani Per i novant’anni di Santino Giovannetti “Merenna” |
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La Barrozza - Natale 2016 - anno XXV n. 2 | |
Scritto da Andrea Martocchia | |
La Redazione de “La Barrozza” ha collaborato, nel 2014, alla pubblicazione, curata da Andrea, dell’importante volume “Il Territorio libero di Norcia e Cascia”, edito in occasione del settantesimo della proclamazione della prima Repubblica Partigiana.
A Monteleone di Spoleto, remoto antico borgo dell’Umbria situato a poca distanza dal massiccio laziale del Terminillo, l’8 novembre del 1926 nasce Sante Giovannetti. Figlio del postino del paese, Santino ancora giovanissimo trova da lavorare, tra l’altro, nella miniera di lignite della frazione di Ruscio, dove viene impegnato anche nel montaggio delle baracche per i prigionieri di guerra stranieri – soprattutto montenegrini – che sono lì assegnati ai lavori forzati (Nardelli 2013). Dopo l'8 Settembre 1943, per oltre sei mesi svolge attività partigiana nel territorio, dapprima nel gruppo comandato dal tenente Parigino Marchi, con base a Colle del Capitano:
Il 14 settembre 1943 alle ore 14,30 ci incontrammo in località “Madonna della Cerqua”. Eravamo circa trenta uomini; proseguimmo verso la Fonte dell’Asola, dove trovammo un altro gruppo di circa quindici elementi e insieme raggiungemmo la Miniera di lignite […] Sapevamo che tutto il materiale bellico e il vettovagliamento del presidio militare era nascosto nelle gallerie della miniera; […] Allorché decidemmo di impadronirci delle armi nascoste nella miniera, il tenente Marchi parlò a tutti noi mettendo in evidenza l’impegno che stavamo assumendo e i rischi e i pericoli che dovevamo affrontare, dicendo quindi che chi non intendeva proseguire poteva tornare indietro. Ma tutti uniti e decisi, continuammo la marcia verso la miniera per prelevare armi e materiale bellico. Arrivammo alla miniera verso le ore 17; […] Io che avevo allora 17 anni, ero l’unico dei presenti a essere in possesso di un’arma, cioè una rivoltella a tamburo che avevo rubato a mio padre due ore prima di andare all’appuntamento con i miei compagni per portare a termine tale azione. Conoscevo bene la miniera in quanto vi avevo lavorato per circa due anni come apprendista. Quando il capo cantiere vide che avevo in mano il revolver si decise ad indicarci dove erano le armi nascoste. A questo punto intervenne il caporale della miniera, un vecchio compagno antifascista di Papigno di nome Ascani che ci condusse alle gallerie e portammo in superficie tutte le armi: fucili modello 91, un mitragliatore con tutte le munizioni e tutto il vettovagliamento. Ci armammo tutti e ci avviammo alla frazione Trivio di Monteleone dove occupammo la scuola elementare per trascorrere la notte. Il 15 settembre ci spostammo al casale di Stranaccia dove ebbe inizio l’organizzazione in modo impegnativo e disciplinato. Alcuni giorni dopo cominciarono a nascere le prime difficoltà, come organizzazione, vettovagliamento, viveri ecc.; alcuni decisero di ritirarsi e ritornare a casa. Gli altri rimasti, decisero di spostarsi al Colle del Capitano dove si presero delle decisioni importanti sul da farsi. (Giovannetti 1975)
Sante Giovannetti, in primo piano, durante la visita alla mostra fotografica sul Territorio Libero allestita nel palazzo della Castelli-na a Norcia, 11 ottobre 1975. Alla sua destra si riconoscono il sin-daco di Norcia Alberto Novelli, Bogdan Pešić, Svetozar Laković; più indietro, con il fazzoletto tricolore al collo, Guglielmo Vannozzi. (Foto: Studio Magrelli da Arch. priv. Giovannetti). In Martocchia, 2014 La prima azione armata, contro una camionetta tedesca in transito sulla Cascia-Monteleone, è della metà di ottobre. Ne deriva, il 31 ottobre, una rappresaglia da parte dei tedeschi, che uccidono il giovane pastore Nicola Risoldi, mentre “un partigiano di nome Besana (il genovese), per correre ad avvertire il comando al Colle Capitano precipitò da un muro, poche ore dopo morì” (Giovannetti 1975; cfr. anche Vannozzi 1944). Di fronte all’inasprirsi della lotta alcuni esponenti del gruppo, ufficiali di carriera, sono titubanti e si allontanano; ciononostante il comandante dei partigiani di Monteleone, Guglielmo Vannozzi “Anselmo”, riesce a consolidare quella formazione che diventerà via via il battaglione “Cimarelli” della brigata “Antonio Gramsci”. A Santino, che è il partigiano più giovane della formazione e risulterà il più giovane della intera brigata “Gramsci”, viene assegnato il buffo soprannome di Merenna – gli era infatti capitato di chiedere ai compagni: “Sempre a marciare… quand’è che ci fermiamo un attimo per fare una merenda?” – ed entra a far parte della squadra di Umberto Angelini detto “il tasso” (“Lu Tascio”). Nel corso dell’inverno i combattenti di Monteleone assumono il controllo del paese, prendono gli ammassi del grano e della lana in tutta la zona, sottraendoli ai tedeschi e distribuendoli gratuitamente alla popolazione: il 30 gennaio 1944, ad esempio, all’assalto dell’ammasso di Terzone c’è anche Santino (Vannozzi 1944), che partecipa poi, fra l'altro, all’attacco alla caserma della GNR di Vindoli e alle azioni del 25-26 febbraio 1944 in cui viene giustiziato il commissario prefettizio di Leonessa Fernando Pietramico, ponendo le premesse per la presa di Leonessa. Giovannetti ricorda che in quella occasione i partigiani partirono da Salto del Cieco (“lu Sartu”), la notte si attestarono a Villa Pulcini presso un contadino e la mattina dopo in località Fuscello assaltarono la corriera di linea della ditta Saura sulla strada Cascia-Leonessa, su cui viaggiava Pietramico. Ad ucciderlo, dopo un aspro interrogatorio, fu Volfango Costa, ex prigioniero alla Rocca di Spoleto. I partigiani catturarono in quella occasione anche due guardie forestali: In realtà Giovannetti ricorda un’altra figura che fu designata come sindaco – Duilio Vannozzi. Giovannetti ricorda inoltre un suo quasi coetaneo, Luigi Bernardini, romano, unico sopravvissuto della sua famiglia al bombardamento di San Lorenzo e perciò riparato a Monteleone presso il nonno, fabbro ferraio. Bernardini segue l’esempio di Santino e diventa partigiano ma il suo destino sarà di finire tra le vittime della violenza nazifascista. Infuriato per l’andamento contraddittorio degli eventi, Giovannetti rientra a Monteleone dove il 4 aprile è catturato dai tedeschi. Il suo destino è deciso in una riunione in una osteria cui partecipano il parroco, don Enrico Ricci, il podestà, Luigi Massi, e un ufficiale tedesco: Santino è deportato attraverso Leonessa e Rieti, fino a Roma, nel campo di internamento di Cinecittà, da dove troverà la salvezza. A Luigi Bernardini invece, in quanto orfano di guerra, è concesso di rimanere in paese, ma questo paradossalmente gli costerà la vita. Infatti pochi giorni dopo, nel secondo grande rastrellamento, uno degli ufficiali tedeschi ex prigionieri lo riconoscerà come partigiano: il pomeriggio del 6 aprile Bernardini sarà trucidato assieme a Sereni e a Carlo Ciampini. Ai tre viene ordinato di scavarsi la fossa, poi gli sparano alla tempia. Giovannetti ricorda sempre che, se non lo avessero deportato a Roma e se lo avessero tenuto a Monteleone, certamente avrebbe fatto la fine tragica dei tre compagni. Gli altri uccisi in zona in quei giorni terribili sono Antonio Poli e Attilio Peroni, semplici contadini colpiti a Budino.
La passione politica e l’attività lavorativa gli fanno incontrare molti personaggi noti, dai grandi leader comunisti fino al presidente Pertini. Nei suoi racconti ritroviamo tanti mondi e tanti ideali che si sono affastellati nel corso dei decenni: dalle greggi antiche di Monteleone alla vivacità delle sezioni del PCI, alla Roma dei pischelli e dei tram elettrici tipo “Ladri di biciclette”. Fonti:
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