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Transumanza e disavventure PDF Stampa E-mail
La Barrozza - Estate 2013 - anno XXII n. 2
Scritto da Enrico Fuselli   

La pratica della transumanza, antichissima nell’area, portava i pastori a condurre d’inverno i propri greggi in zone dal clima più temperato; tale consuetudine era stata regolata dettagliatamente già in epoca medioevale. I pastori ricevevano dalle autorità pontificie un salvacondotto, che - teoricamente - avrebbe dovuto garantirli contro ogni inconveniente e disturbo. Gli “affidati” (cioè i pastori muniti della “bolletta della fida”) potevano percorrere le strade con tutta tranquillità, recando ogni sorta di bestiame (“grosso et menuto”); la garanzia si estendeva anche ai garzoni e ai conducenti dei carri. I pastori erano espressamente autorizzati a spostarsi con le armi, sia di giorno che di notte, valendosi del caso di lumi, essendo dichiarati immuni da ogni pena. Chiunque avesse osato molestare i pastori sarebbe incorso in una multa di mille ducati, che sarebbe stata devoluta a vantaggio della Camera Apostolica, per il tutto il periodo di validità della “fida”, fino alla festa di s. Angelo (1).

Nella realtà, la situazione era ben diversa. Disponiamo, grazie ad un interessante studio ottocentesco, di informazione sulle traversie patite da alcuni allevatori di Norcia e Monteleone di Spoleto, che nel XV secolo portarono le proprie bestie nei pascoli della Maremma pontificia. Il testo riporta alcune notizie tratte da una relazione di Agostino Chigi, doganiere dei pascoli delle tenute dell’Agro romano e di quelli della Provincia del Patrimonio di Pietro (corrispondente all’attuale provincia di Viterbo), stilata il 14 novembre 1497 e indirizzata alla Camera Apostolica. Il “doganiere” Chigi dichiarò nello scritto che se avesse voluto dar conto di tutti gli abusi, le molestie, gli assassini di cui i pastori erano oggetto, avrebbe avuto bisogno di molto tempo e di una consistente mole di materiale sul quale scrivere…

Un pastore, Giovanni De Tizio di Norcia, ebbe a patire il furto di più di cento pecore; recatosi di persona dagli autori del misfatto (accompagnato da una guardia a cavallo del “doganiere”) per ottenerne la restituzione, si sentì da loro rispondere che non solo non le avrebbe avute indietro, ma che addirittura avrebbero ucciso tutti i pastori e le pecore che fossero transitati nei paraggi. Avendo egli esibito la “bolletta di fida” (il documento che attestava il regolare passaggio del gregge), gli energumeni la fecero a pezzi. Neanche il ricorso al locale Governatore portò ad alcun risultato; egli si rifiutò di fare giustizia.
Non andò meglio per un altro allevatore, certo Pazzaglia di Monte Leone di Cascia, che nei pressi di Amelia ebbe la sventura di essere taglieggiato in più occasioni da alcuni individui della zona, che gli sottrassero oltre cento ciavarri, che furono occultati dai ladri, chiamati Schiavi, nel locale che serviva da fornace, all’interno del loro castello. Un garzone del Pazzaglia, certo Pampana, chiese udienza e giustizia al governatore di Narni, esibendo la “bolletta della fida” e appellandosi all’autorità dello stesso. Questi non solo ricusò di accettare la richiesta - sacrosanta - dell’uomo, ma anzi lo fece trarre in carcere, minacciando addirittura di impiccarlo.

Un certo Giovanni Battista di Norcia, sempre nello stesso periodo, venne alleggerito di venti bestie nei pressi di Amelia. Giovanni Di Tizio - che dovrebbe essere la stessa persona di cui abbiamo già parlato - nei dintorni di Todi ed Amelia ebbe la malaparata di vedersi sottrarre trenta pecore; ad un altro pastore, Giovanni Angelo Da Caterino, di Norcia, ne furono rubate quaranta (2).


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C. DE CUPIS, Le vicende dell’agricoltura e della pastorizia nell’Agro romano. L’annona di Roma, Roma, Tip. Nazionale di G. Bertero & C., 1911, Appendice documentaria, doc. n. II, anno 1496, pp. 561-563.
Ivi, Appendice documentaria, doc. n. III, 14 novembre 1497, pp. 564-566.

 
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