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La campagna di Russia
I Quaderni di Ruscio - I Caduti di Ruscio nella II Guerra Mondiale
Scritto da S.Ten. Bers. Gianluca La Posta   

Tra tutte le vicende che videro coinvolte le Forze Armate italiane durante il secondo conflitto mondiale, la Campagna di Russia è quella che è rimasta più tristemente nota nell’immaginario collettivo del nostro Paese.
Ciò è, probabilmente, accaduto per due ordini di motivi.
Da un lato l’elevatissimo numero di perdite subite dai nostri reparti dovuto in gran parte all’asprezza della zona delle operazioni ed alla disfatta subita nel gelido inverno russo, che costrinse centinaia di migliaia di soldati ad una penosa ritirata nella steppa.
D’altro lato, altrettanto triste è stata la vicenda dei prigionieri italiani sotto custodia sovietica, molti dei quali, dopo esser sopravvissuti ad una prigionia inumana e che aveva mietuto tante vittime quante la ritirata, non furono rimpatriati immediatamente alla fine della guerra nel 1945, ma la loro detenzione si protrasse per anni, rimanendo coinvolta nelle vicende della Guerra Fredda. Gli ultimi soldati italiani “terminarono” la loro personale campagna di Russia solo nel 1954 (undici anni dopo esser stati catturati!) per di più, le forze politiche della neonata Repubblica Italiana tentarono di sfruttare la vicenda dei prigionieri per fini propagandistici, contribuendo ad alimentare la triste fama di quell’episodio di guerra.

La tragica avventura era iniziata così.
Il 21 giugno 1941, Hitler diede ordine alle proprie divisioni di iniziare l’operazione “Barbarossa”, cioè l’invasione dell’Unione Sovietica.
Mussolini fu avvisato solo ad operazioni iniziate e, dopo aver smaltito l’umiliazione di non essere stato consultato preventivamente dall’alleato, decise che anche l’Italia fascista dovesse contribuire alla sconfitta del comunismo e predispose un primo invio di truppe.
Il 10 luglio 1941 iniziarono le partenze per il lungo viaggio di 2.300 chilometri che avrebbe portato i soldati italiani a combattere una guerra d’invasione durissima, contro un nemico sottovalutato dalla retorica di partito ed in condizioni climatiche proibitive d’inverno e difficilissime durante il resto dell’anno, senza contare che la lunghezza delle linee di comunicazione colse del tutto impreparato l’apparato logistico del nostro esercito, con conseguenze funeste per i combattenti al fronte.
CSIR, cioè Corpo di Spedizione Italiano in Russia, era il nome di questa prima aliquota di truppe ed era formato dalle divisioni Torino, Pasubio e Celere, per un totale di circa 50.000 uomini, 5.000 automezzi, 4.600 quadrupedi ed 80 aerei al comando del Gen. Giovanni Messe.
I nostri soldati calzavano scarponi di cuoio “autarchico” con 72 chiodi cadauno, come prescritto dal regolamento, ed indossavano divise di tessuto grigioverde buone per tutte le stagioni. Erano armati con moschetto Manlincher Carcano mod. 1891, poche armi automatiche per reparto, bombe a mano “offensive” che facevano più rumore che danni ed artiglieria, spesso, risalente al primo conflitto mondiale. Quasi nulla era la dotazione di carri armati.
Comunque, il CSIR fu impiegato alle dipendenze del 3° corpo corazzato tedesco, al comando del gen. von Kleist, sul fronte del fiume Dnestr, e si comportò bene, sostenendo l’avanzata e conquistando vari centri importanti, come, per esempio, la zona industriale di Stalino (bacino del Donez) occupata il 20 ottobre 1941 e la località di Nikitovka, sulla linea della quale i nostri reparti ressero ad un massiccio contrattacco sovietico, scatenato il 25 dicembre 1941, durato 6 giorni, a costo di gravi perdite e sperimentando, per la prima volta, la forza del “generale Inverno” (la temperatura minima tocco i 30° sottozero). La primavera del 1942 vide il CSIR impegnato nella zona di Izjium fino al 9 giugno dello stesso anno, quando Mussolini decise di aumentare il contributo italiano contro l’odiato comunismo sovietico e fu creato l’ARMIR, ovvero l’Armata Italiana in Russia.
La nuova grande unità italiana era composta dal 24° Corpo d’Armata (divisioni Torino, Pasubio e Celere, praticamente l’ex CSIR) dal 2° Corpo d’Armata (divisioni Ravenna, Cosseria e Sforzesca) e dal Corpo d’Armata Alpino (div. alpine Tridentina, Julia e Cuneense, poi, anche la divisione fanteria Vicenza) per un totale di circa 230.000 uomini.
Anche l’ARMIR si comportò bene, partecipando alla travolgente avanzata delle truppe dell’Asse, attraverso l’Ucraina meridionale nell’estate - autunno del 1942 e, tra i tanti, vale la pena di citare l’episodio che ebbe per protagonista il reggimento “Savoia Cavalleria”, il 24 agosto del ’42, nei pressi di Isbucenskij.

Il reparto si ritrovò isolato, con forte rischio di aggiramento da parte del nemico che nottetempo aveva traversato il fiume Don alla scopo di mettere in difficoltà il sistema difensivo italiano. Resosi conto dell’accaduto il colonnello Bettoni, comandante del Savoia, ordinò al suo reparto di disporsi per la carica e di rompere lo schieramento russo. Con una serie di cariche di cavalleria, più simili a quelle del periodo napoleonico che alla Blitzkrieg tedesca, operate dagli squadroni del reggimento, i russi furono messi in fuga ed il reparto riprese il contatto con il resto dell’Armata. Molti storici ritengono che questo episodio costituisca l’ultima carica di cavalleria della storia, operata a fini bellici da un esercito moderno!

Con l’arrivo dell’inverno a cavallo tra il 1942 ed il 1943, iniziò la tragedia dell’Armata italiana.
L’ARMIR era schierato sul Don a protezione del fianco sinistro della 6ª Armata tedesca che assediava Stalingrado, col compito di difendere un settore di fronte lungo circa 300 Km.
Il settore all’estrema sinistra delle posizioni italiane era presidiato dalla 2ª Armata Ungherese, mentre l’ala destra era tenuta dalla 3ª Armata Romena.
Le nostre truppe furono coinvolte e travolte dalla massiccia offensiva invernale dell’Armata Rossa, che aveva come obiettivo principale di chiudere in una sacca le truppe tedesche che circondavano Stalingrado. La rottura del fronte tenuto dalla 3ª Armata Romena e, a Sud, dalla 4ª Armata Tedesca, riuscì nell’intento e mise anche in crisi l’intero fronte del Don. Infatti, pur non essendo chiuse nella sacca, già dalla fine di novembre ’42, le truppe italiane ebbero l’ala destra scoperta. Fu l’inizio della fine.
L’11 dicembre iniziò l’attacco russo contro il nostro 2° Corpo d’Armata (div. Cosseria e Ravenna) che provocherà la rottura del fronte nel settore della Ravenna e l’inizio dell’aggiramento delle posizioni italiane.
In conseguenza di ciò, si aprì il primo atto della tragedia della ritirata.
In questa fase fu coinvolta la maggior parte dell’ARMIR (div. Cosseria, Ravenna, Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca) .
Centinaia di migliaia di soldati furono costretti ad un penoso ripiegamento a piedi, nella neve, con temperature rigidissime, funestati dall’Armata Rossa che, imperversando senza alcuna opposizione, controllava tutti i punti di passaggio con l’ausilio anche dei partigiani. Ben presto la ritirata si trasformò in una rotta con migliaia di morti, ancor più congelati e tantissimi prigionieri. I superstiti raggiunsero le linee amiche solo il 28 dicembre.


Nel frattempo, il Corpo d’Armata Alpino era rimasto sulle posizioni iniziali sul Don, apparentemente non coinvolto dall’attacco sovietico e con il fianco sinistro ancorato alla 2ª Armata Ungherese. Ma stava per iniziare anche il secondo atto del dramma.
Il 13 gennaio 1943, le truppe russe avviarono l’attacco contro le posizioni ungheresi e due giorni dopo ruppero il fronte, iniziando l’accerchiamento dei nostri alpini.
Gli alpini non si sfaldarono e resistettero agli attacchi frontali sovietici, chiudendo le falle fino a quando le posizioni divennero realmente insostenibili, a causa della chiusura della tenaglia nemica che aveva interrotto qualsiasi collegamento con le altre truppe dell’Asse.
Tra il 17 ed il 19 gennaio iniziò lo sganciamento dei reparti, con le divisioni Julia e Cuneense particolarmente logorate dai combattimenti sostenuti e la Tridentina relativamente più integra.
Il 20 fu superato il primo sbarramento russo a Postojali; il 22 si combatté di nuovo a Sceljakino; il 23 la colonna, con i superstiti della Julia e della Cuneense, continuò la sua marcia verso Ovest, verso il varco di Valuiki, mentre la Tridentina aveva ricevuto notizia che il nuovo punto di uscita dalla sacca era Nikolajevka a Nord- Ovest; il 25 i reparti della Tridentina combatterono e ruppero un’altra barriera ad Arnautuovo e Nikitovka e il 26 ruppero l’ultimo sbarramento sovietico a Nikolajevka, superando le truppe russe asserragliate nel paese con una disperata carica di tutta la massa di sbandati, che seguiva i reparti combattenti e che attendeva da ore l’apertura di un passaggio; il 27 gennaio a Valuiki caddero prigionieri i resti della Julia e della Cuneense.
Da quel momento in poi la pressione sovietica diminuì gradualmente, ma la  marcia estenuante si concluse solo dopo il 31 gennaio 1943, quando i superstiti del Corpo d’Armata alpino incontrarono i primi reparti avanzati tedeschi a Sebekino.
Il Bollettino n. 630 dell’8 febbraio 1943 del Comando Supremo dell’Armata Rossa, nel riportare la notizia della resa delle truppe naziste a Stalingrado e della grande vittoria dal popolo sovietico ottenuta riconobbe che: “Soltanto il Corpo d'Armata Alpino Italiano deve considerarsi imbattuto in terra di Russia”.
Questo onore fu ottenuto ad un prezzo altissimo in termini di vite umane e di sofferenze.
Tentare di descrivere ciò che accadde nelle steppe russe in quell’inverno del 1943 è praticamente impossibile per chi ha avuto la fortuna di non essere testimone diretto degli eventi; dalla copiosa memorialistica dei superstiti si può solo avere un’idea dell’inferno che fu la ritirata dei nostri reparti. Perché di inferno in terra si trattò!
Sia il grosso dell’ARMIR prima, sia gli alpini poi, furono costretti a percorrere a piedi centinaia di chilometri sfuggendo a un nemico che li circondava e li attaccava a piacimento. I carri armati sovietici T 34, i cosacchi con le loro cariche selvagge, gli spezzonamenti aerei ed i partigiani seminarono morte e panico nelle colonne degli sbandati. Ma il pedaggio più caro fu pagato all’inverno che, quell’anno particolarmente rigido, fece scendere la temperatura fino ai 40°, 45° sottozero.
In condizioni simili, la vita umana diviene difficile, tanto più se si è costretti a marce forzate, senza cibo e riparo dalle intemperie e con abbigliamento del tutto inadeguato al clima. Chi uscì dalla sacca lo deve alla forza di volontà non meno che alla forza fisica, alla fortuna ed all’istinto di sopravvivenza. I reduci raccontano di centinaia di commilitoni che, stremati, si abbandonavano nella neve per aspettare la fine e di tanti altri che invocavano inutilmente il soccorso dei compagni per continuare ad andare avanti, di un altro passo verso l’Italia lontana.
Fu una tragedia enorme, troppo spesso strumentalizzata a posteriori da interessi politici, che ne hanno distorto il ricordo e la percezione (pur rimasta viva!), a scapito di un’analisi schietta dei fatti, che restituisse agli sfortunati protagonisti la dimensione reale di ciò che accadde.
Di certo, si tratto’ della più grave disfatta subita dall’esercito italiano. Fu la nostra Jena o la nostra Stalingrado!
Si consideri che dei 230.000 uomini che componevano l’ARMIR, circa 95.000 non fecero ritorno a casa. È una percentuale vicina al 50%, quando nelle più cruente battaglie della Iª Guerra Mondiale le truppe italiane avevano patito perdite, comunque altissime, pari al 14 - 16% degli effettivi.
Il terzo ed ultimo atto della tragedia coinvolse i molti militari italiani che caddero prigionieri dei russi durante la campagna. Si trattò di circa 70.000 soldati.

Appena catturati, questi uomini furono costretti a penosissime marce di trasferimento verso i campi di concentramento, sempre  a piedi, nella steppa al freddo e con scarsissimo cibo. Moltissimi iniziarono a morire subito. I superstiti le chiamarono “le vie del davai” dall’incitamento ossessivo e violento con cui le sentinelle russe spronavano i prigionieri a non fermarsi (davai vuol dire “avanti”).
Anche la detenzione vera e propria fu un dramma che costò la vita a tantissimi italiani e per molti si protrasse ben oltre la fine della guerra. Coloro che si erano opposti all’indottrinamento comunista, molti alti ufficiali, cappellani militari e gente di più o meno provata fede fascista rimasero internati in Unione Sovietica fino a quando le autorità comuniste non “concessero” il rimpatrio. La vicenda dei prigionieri italiani in Russia fu coinvolta e travolta dalla Guerra Fredda e, come accennato, gli ultimissimi fecero rientro solo nel 1954!!
Particolarmente drammatico è il conto dei rimpatriati; dei 70.000 catturati dell’ARMIR, fecero ritorno, in tutto, solo in 10.087. Il confronto, in termini percentuali, rispetto ai prigionieri detenuti e rimpatriati dalle altre potenze coinvolte dal conflitto è agghiacciante.
Il 99.8% dei prigionieri sotto responsabilità statunitense fece ritorno in Italia; il dato scende al 98.6% degli italiani catturati dalla Gran Bretagna ed al 98.4% per i detenuti dalla Francia. I nostri militari catturati e deportati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 furono circa 642.000; di questi il 94.4% fece ritorno in Italia. Le percentuali riportate scendono drasticamente nel caso dei prigionieri italiani in Russia. Solo il 14% dei nostri connazionali fece ritorno a casa.

Soldato Bernabei Biagio

Soldato nel 3° reggimento Artiglieria controaerei, 41° btr. da 20mm
Disperso in Russia il 3 ottobre 1942

Biagio, figlio di Francesco e Lucia Matteucci, gia’ riformato, su sua specifica richiesta fu sottoposto a visita medica e, visto l’esito positivo di tale riesame, fu collocato in congedo illimitato provvisorio il 1 aprile 1941. Due mesi piu’ tardi fu richiamato alle armi e inquadrato nel 3° reggimento Artiglieria controaerei, 41° batteria da 20 mm, del Corpo d’Armata Alpino, di stanza a Firenze.

La radunata del CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia) non era ancora completata e, nel luglio del ’41, il Comando Supremo, studiava l’accrescimento del numero delle Grandi Unita’ inviate a combattere su quel teatro di operazioni. In previsione degli obiettivi futuri (raggiungimento della linea del Volga, occupazione di Stalingrado, attacco al Caucaso e apertura della grande marcia verso Oriente, attraverso Iran, Irak, Siria e Palestina, fino a chiudere la tenaglia sull’Egitto), Hitler aveva bisogno delle tanto apprezzate truppe alpine italiane.
Pertanto, nell’incrementare la presenza italiana in Russia, nella costituzione dell’8° Armata, gia’ forte del II Corpo d’Armata e del CSIR, veniva inserito a pieno titolo il Corpo d’Armata Alpino.

Alla data di costituzione del Comando dell’8° Armata (1 maggio 1942), il CSIR si trovava gia’ da tempo in zona di combattimento, mentre il II C. A. ad Alessandria e il Corpo d’Armata Alpino a Bolzano. Le divisioni e i reparti minori di tali due Grandi Unita’ erano ancora dislocate in Italia, lontano dai rispettivi Comandi e lentamente si andavano concentrando nelle zone da cui avrebbe avuto inizio il trasporto ferroviario.

Il 14 luglio inizio’, per ultimo, il trasporto ferroviario del Corpo d’Armata Alpino. Le unita’ del Corpo d’Armata, compresa la 41 btr c/a da 20 m/m, unita’ direttamente dipendente dal Comando, raggiunsero Gorlowa nei giorni tra il 28 luglio e il 4 agosto.

Dunque, il nostro Biagio, da quanto si rileva dal foglio matricolare personale, giunse in territorio dichiarato in stato di guerra il 12 Agosto 1942. Ma l’incalzare degli avvenimenti, la mancanza di adeguati servizi di trasporto, fecero cambiare destinazione al Corpo d’Armata Alpino, che fu schierato lungo il corso del Don.
Le posizioni assunte si presentavano naturalmente forti, anche se le loro caratteristiche tattiche erano assai diverse da quelle familiari delle Alpi.
Durante le fasi di modifica dello schieramento dell’8° Armata, oppure durante i continui tentativi dell’Armata Sovietica di infiltrarsi tra le linee alleate, il 3 ottobre 1942, il Nostro Biagio fu dichiarato disperso.
E’ uno dei 74.800 soldati italiani dispersi in terra russa.

Il Comando Supremo dell’Armata Rossa, dichiaro’ che: “Soltanto il Corpo d'Armata Alpino Italiano deve considerarsi imbattuto in terra di Russia”.(Bollettino n. 630 dell’08/02/1943)

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Nota Genealogica

BIAGIO BERNABEI E CENNI SULL’ALBERO DEI BERNABEI

Un Biagio Bernabei risulta nel registro dei battesimi il 3 febbraio 1914 come terzo figlio di Francesco detto “Checco il molinaro” (n. 1885) e Lucia Matteucci di Matteo (n. 1889).

I genitori di questo Biagio erano del Trivio ma si erano stabiliti in Ruscio, zona Santa Lucia.
Il fratello maggiore è il Giuseppe (n. 1911) fondatore della storica macelleria in Ruscio di sopra negli anni ’60-’80, marito di Irma Reali e padre di Lucia, Paola, Desideria e Franco Napoleone (l’ultimo portabandiera, unitamente ai suoi due figli,  del cognome Bernabei in Ruscio).
Altro fratello maggiore di quel Biagio è Augusto (n. 1912), sposo di Settimia Carmignani.
Oltre ad altri due fratelli minori morti (n. 1916 e 1921) appena nati, ne risulta un altro di nome Quinto (n. 1919).

“Checco il molinaro” era figlio di Gregorio (n. 1860 e sposo di Paolina Belli), figlio di Giovanni (n. 1820 e sposo di Lucia Marani), figlio di  Cruciano (n. 1777 e sposo di Maria Belli), figlio di Gioacchino (n. 1748 e Nunziangela Peroni), figlio di Francesco Maria (n. ad inizio ‘700 e sposo di Orsola Angelini), figlio di Paolo (n. intorno al 1685 e sposo di una certa Letizia), figlio di Francesco Maria (n. intorno al 1660), figlio di Pasquale (n. intorno al 1630).

Quello di Paolo e Letizia  rappresenta il ramo triviaro dei Bernabei mentre quello del fratello Pasquale (sposo di Francesca Niccoli) appare localizzato in Monteleone.

Un terzo ramo Bernabei fa capo ad un Domenico Antonio (nato a fine ‘600 da Pasquale),  sposo di Maria Antonia Tuccini). Questo terzo ramo, che a sua volta  si sviluppa in due sottorami, sembra quello più rusciaro. L’ultima discendete in zona è Ida Bernabei da cui gli Alfonsi, tuttora in Ruscio.

Il Pasquale del 1630 circa è il capostipite di tutti i rami Bernabei.

 
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