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Il bifolco |
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La Barrozza - Natale 2009 - anno XVIII n. 3 | |
Scritto da Valeria Reali | |
L’evoluzione e il cambiamento della società nel corso degli anni ha mutato profondamente il nostro modo di vivere ma anche il nostro modo di lavorare, creando mestieri nuovi e facendone scomparire molti altri. Uno di questi mestieri scomparsi è quello del "bifolco". Attualmente questa parola è considerata, al pari di villano e cafone, un insulto. Per essere bifolco o "biforco" occorreva, per lo meno, possedere una "vetta", la coppia di buoi o più comunemente un bue e una vacca, di razza maremmana, con il mantello bianco sfumato di grigio, con corna immense, "addomati", cioè abituati, a trascinare la "barrozza" e a rimanere sotto il peso del giogo. I buoi erano tori castrati. Si ricorreva a questa pratica, quando erano ancora giovenchi, per renderli più docili e mansueti e più adatti al lavoro di traino. Quasi tutti i bifolchi però possedevano due vacche e un bove. Le vacche si alternavano al lavoro perché i proprietari facevano rispettare turni di riposo a quella gravida mettendo all'opera quella "soda". Queste bestie, comunque, meritavano sempre le migliori attenzioni da parte dei bifolchi i quali mettevano a loro disposizione i foraggi migliori e in razioni generose. La giornata lavorativa iniziava molto presto in quanto si dovevano trovare sul posto di lavoro, a volte distante diversi chilometri, dal paese, alle prime luci dell'alba. Se invece la giornata lavorativa era meno lunga si portavano la "catana" (allora i famosi tascapani di Tolfa si chiamavano così) dalla quale spuntava il manico del "roncio" e il collo della bottiglia di "ammezzato" (vino allungato con acqua). Indossavano una giacca di fustagno con sopra, se era freddo, la "cappottina" (una specie di giaccone) e si coprivano i pantaloni di "pelle di diavolo" a "cica" (alla cavallerizza) con i "guardiamacchia" o cosciali di pelle di capra. Calzavano scarponi chiodati rifiniti dagli immancabili gambali. Il cappello a falde larghe, di color nero o marrone o grigio, completava questa specie di divisa. In tasca, però, avevano sempre lo "spadino", un coltello a serramanico con una lama molto lunga, affilatissimo e appuntito. Serviva per molte cose ma soprattutto per liberare velocemente la vetta in caso di ribaltamento della barrozza per non lasciar morire strozzate le vacche. Queste bestie avevano sempre dei nomi strani e fantasiosi, per lo più vezzeggiativi, mio padre mi raccontava sempre che loro ne avevano una, tra le altre, chiamata Damigella perché nella stalla occupava il posto di due bestie, probabilmente per stare comoda. Il vero regno dei bifolchi non erano i campi ma la macchia e così fu fino ai primi anni dopo la seconda guerra mondiale. In questo periodo furono immessi sul mercato italiano, a prezzo stracciato, i residuati bellici americani. Le imprese boschive si dotarono quindi, dei famosi "gipponi" G.M.C. e Taunus della Ford, a tre assi con cabina telata o chiusa e a trazione integrale. Allora dovettero definitivamente cambiare tipo di lavoro: alcuni si inurbarono, altri si trasformarono in trattoristi, altri ancora si ridussero al allevare vacche da latte |
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